Steve Wynn, classe 1960, è un rocker americano con una lunga carriera. All’inizio degli anni ’80 con la sua band Dream Syndicate è tra i principali fondatori della cosiddetta scena Paisley Underground di Los Angeles. Questo genere consiste in un mix di psichedelia, punk e rock decadente e nasce dall’esigenza dei ragazzi che formano una band di ridare un ruolo centrale alla chitarra. Negli anni ’90 inizia una carriera come solista producendo una serie di album che, pur non abbandonando mai il filone del rock, riescono a offrire una varietà di sonorità e atmosfere. Nei decenni sono tantissimi i progetti in cui si suona: Danny and Dusty, i Gutterball, i Miracle 3 e i Baseball Project un’interessante band composta dalla moglie batterista Linda Pitmon e alcuni ex componenti dei REM che si cimenta in pezzi che raccontano storie o personaggi relativi appunto al mondo del baseball. Nel 2012 i Dream Syndicate si riuniscono per celebrare con un tour il trentennale del primo album The Days of Wine and Roses. Il progetto riparte due anni dopo in occasione del trentennale della seconda opera: The Medicine Show. Nel 2017, a distanza di trent’anni, la band decide di pubblicare un album di inediti intitolato How Did I Find Myself Here che riscuote un ottimo successo di critica e pubblico. Un secondo disco dal titolo These Times vede la luce nel 2019 e, rispetto al predecessore, vira da un solido rock basato su interplay tra chitarre a sonorità più psichedeliche. Durante il lockdown ne esce anche un terzo, ma di questo lasciamo che sia Steve a parlare.
Ciao Steve, hai fatto moltissime cose nel corso degli ultimi mesi nonostante il Covid. Partirei dall’ultimo album dei Dream Syndicate: The Universe Inside uscito ad aprile 2020 in pieno lockdown mondiale. Ti saresti aspettato che avrebbe riscosso così tanto successo entrando nella classifica Billboard per la prima volta nella storia della band?
Il successo di un album non è solo commerciale. In primo luogo ciò che io valuto un successo è che tutti e cinque i Dream Syndicate siano entusiasti di quel disco e non è una cosa che capita sempre. Si tratta di una lunga Jam Session tra noi che ci divertivamo a improvvisare in studio; eravamo così soddisfatti del risultato che abbiamo tagliato veramente poco. In seguito abbiamo sovrainciso la voce e alcuni strumenti e si è trasformato in un album. Detto questo, ovviamente il successo commerciale ci ha fatto molto piacere.
Sembrerebbe un album perfetto per essere suonato dal vivo, se fosse stato possibile promuoverlo con un tour…
Anche noi la pensiamo allo stesso modo e abbiamo pianificato di suonarlo nei concerti appena possibile con una formazione allargata ai fiati e alle coriste. Non importa quanto ci vorrà, ma prima o poi ti posso garantire che faremo questo tour.
Un altro disco che hai pubblicato in questi ultimi mesi è stata una raccolta di tuoi brani suonati in acustico. Come nasce questo progetto?
Alcuni anni fa ho fatto un tour elettrico da solo e poi pubblicato un disco in cui erano contenute alcune canzoni voce e chitarra elettrica, ma non avevo mai pubblicato un disco acustico. A me capita molto spesso di suonare in acustico nei club, e questi concerti piacciono, funzionano. Così ho pensato di mettere su un disco dal titolo Solo Acoustic questa versione di alcuni dei miei brani. C’è questo produttore, Brian Beattie, che ha lavorato in diversi album di Bill Callahan e Daniel Johnston di cui adoro il suono e ho pensato di rivolgermi a lui. Siamo entrati in studio e in una sola giornata abbiamo registrato ventisei canzoni per il disco. Ora come ora è difficile fare previsioni, ma è plausibile che appena potrò tornare su un palco sarà per un tour di questo tipo che è più agile e facilmente gestibile con le normative anti Covid rispetto all’esibirsi con la band di fronte a platee più ampie.
Concludendo con le uscite discografiche, ha visto la luce a fine anno anche un box di 11 cd dal titolo Decade che raccoglie tutti i tuoi album tra il 1996 e il 2005 con l’aggiunta di versioni alternative e outtakes. Sei stato coinvolto nella realizzazione e sei contento del risultato?
Quel box Decade ha richiesto due anni interi di lavoro tra trasferimento di cassette e DAT, rimasterizzazione degli album, scelta di canzoni e sequenze, scrittura e modifica di note di copertina. Pat Thomas, che ha coprodotto il box, e io gli abbiamo dedicato davvero molto tempo e abbiamo fatto tutto il possibile per assicurarci che fosse qualcosa che giustificasse la portata e l’ambizione del progetto. Ho pensato che questo tipo di cofanetto mi sarebbe capitato una sola volta nella mia vita, quindi non volevo avere alcun rimpianto una volta terminato. E devo dire di non averne affatto. L’unico inconveniente è che il piano era di andare in tour una volta pubblicato e portare le canzoni di città in città, e mi auguro che possa accadere più tardi quest’anno.
Steve, hai anticipato la prossima domanda parlando dei concerti fermi. Tu sei perennemente in tour, come hai vissuto questi periodo in cui non ti sei potuto esibire?
Certamente non avevo pianificato di non poter calcare i palchi per due anni – o comunque per il tempo che sarà necessario – perché mi piace farlo e interagire col pubblico, coi fans. Cerco di trovare il lato positivo in ogni cosa: ho lavorato alla mia musica e ho fatto delle esibizioni online. Non sono paragonabili a quelle sul palcoscenico, ma sono un’esperienza interessante: all’inizio mi sembrava assurdo suonare davanti al mio i-pad, ma poi mi ha ricordato i broadcast che si facevano una volta negli studi delle emittenti radiofoniche che, devo dire, hanno il loro fascino.
Quando hai suonato l’ultima volta live?
Coi Dream Syndicate abbiamo fatto un paio di concerti a febbraio e poi l’ultimissima volta in cui sono salito su un palco è stato per un tributo a Lou Reed in occasione di quello che sarebbe stato il suo compleanno a inizio marzo per suonare una cover di I Can’t Stand it.
Ora partirà (con la prima data prevista per domenica 17 gennaio in collaborazione col Germi di Milano) l’Impossible Tour che ti vedrà protagonista assieme a Linda Pitmon. Ogni domenica ci saranno due date virtuali in due locali di due diversi continenti: uno in Europa e uno negli Stati Uniti. Vuoi raccontare di cosa si tratta?
Quest’anno è stato molto difficile dal punto di vista lavorativo oltre che sanitario: lo è stato per tutte le persone, ivi compresi i musicisti e i club musicali. Una delle mie esibizioni online dei mesi scorsi si è svolta in collaborazione col Germi di Milano che è un locale in cui sono di casa e che adoro. Così ho pensato di organizzare questo tour come se volessi programmane uno in carne e ossa invece che online, selezionando esclusivamente club in cui ho già suonato, che amo e in cui si è creato un rapporto d’amicizia coi titolari che lavorano per amore della musica e tralasciando i locali dediti solo al business. In occasione di ogni data, racconteremo al pubblico alcuni aneddoti sui nostri precedenti show nel locale che ci ospita virtualmente e ci cimenteremo in almeno una cover di una band locale che ci piace (per la prima data si tratterà di un pezzo degli Afterhours).
Tu hai sempre promosso la registrazione e divulgazione gratuita online dei bootleg dei tuoi concerti; solo sul sito Archive si possono trovare centinaia di tuoi show per lo streaming e il download. Come mai, a differenza di altri artisti, ritieni questa circolazione dei tuoi live positiva e non dannosa?
Voglio soprattutto che le persone siano in grado di ascoltare la musica. Creo musica perché le persone la ascoltino. Ecco perché consento la registrazione agli spettacoli e incoraggio lo scambio di nastri, il download e persino lo streaming di album. Semmai sono come un predicatore che vaga di città in città diffondendo il vangelo e tutto ciò che posso fare per aggiungere qualcuno alla mia congregazione è una buona cosa. Vieni fuori, fatti guarire e magari porta con te qualche elisir fatto in casa – CD, magliette o vinili – per guarire di nuovo quando torni a casa. Ci vediamo di nuovo in chiesa domenica prossima.