Marco Tonelli risponde a Giancarlo Politi che prendendo spunto da un articolo di Bruno Ceccobelli su ArtsLife attribuiva i suoi valori agli artisti contemporanei
Damien Hirst, Jeff Koons, Maurizio Cattelan: tre straordinari manager e imprenditori di se stessi in veste di artisti, non c’è dubbio. Artisti da “champions league” o da “serie A” li ha definiti Giancarlo Politi nel suo recente Amarcord ripreso da Artslife. Dovessimo misurare il valore di un artista dal valore del denaro che mette in moto o dalle gallerie internazionali che lo rappresentano, senza dubbio il terzetto di Politi sarebbe una sorta di Trinità del Capitalismo in Arte, figlio di quella “business art” profetizzata alcuni decenni fa da Andy Warhol e ormai pienamente realizzata. Di fronte a loro le quotazioni di un Bill Viola, Anselm Kiefer o Giuseppe Penone impallidiscono. E stando al sillogismo del valore come denaro, ci dovrebbero forse dire di artisti minori, di serie B.
I conti non tornano evidentemente (Kiefer, Viola e Penone non sembrano artisti di serie B), né torna l’accanimento, seppur bonario e ironico di Politi versus Bruno Ceccobelli (entrambi umbri, uno di Trevi uno di Todi), fatto passare per artista fuori del mondo, un non combattente, un guru a cui il successo non avrebbe arriso, al punto da praticare l’arte come forma di “terapia o relax”. Eppure nel curriculum di Ceccobelli si legge a partire dal 1980 di mostre personali in tutto il mondo, da Yvon Lambert a Salvatore Ala, da Sperone Westwater ad Akira Ikeda, da Studio Marconi a Jack Shainman o Mario Diacono, insomma alcune delle più importanti gallerie dell’epoca (è presente anche nella collezione di Ernest Beyeler) e si sa che di denaro Ceccobelli ne aveva mosso al tempo.
Qualcosa è accaduto però, qualcosa forse si è rotto. Il lavoro ha “deviato” perché probabilmente è venuta meno la fiducia non tanto nell’opera quanto nell’Arte come ingranaggio di un sistema economico. E quindi l’opera di Ceccobelli ha preso altre strade, più libere, più erranti, più intime. È forse ritornato al “proprio progetto di vita”, come scrive Diego Fusaro, abbandonando “una causa continuamente encomiata come più grande e più degna, quella della competitività globale e del mercato cosmopolitico”.
Per questo andrebbe ironicamente deriso e velatamente tacciato da perdente di serie C? Ammesso ciò, siamo poi sicuri che Hirst, Koons e Cattelan siano emblematici di ciò che significa avere successo oggi, venire considerati poco meno di geni e a un passo dall’eternità, solo perché ad esempio un’opera di Koons sarebbe garantita “dai fornitori della NASA 10.000 anni”? Non sono piuttosto artisti espressione diretta della “competitività globale” da abbracciare a ogni costo come fosse un valore, una chiamata, una necessità?
Se anche Koons fosse eterno, cosa sono 10.000 mila anni rispetto a 14 miliardi di anni? Che è la durata stimata del nostro universo, considerando che non è neanche finita li? Un’opera d’arte ovviamente non è eterna perché la sua materia dura nel tempo, bensì perché il suo valore (non economico) saprà ancora parlare tra qualche secolo. Fosse anche ridotta a un rudere, anzi forse proprio perché è fuori del tempo. Scriveva Rodin che la Venere di Milo, pur priva di braccia ed erosa dai secoli, rimane sempre la più bella statua mai creata (alla faccia dell’acciaio inox delle pentole di Koons!). L’opera insomma sarà eterna perché in grado, attraverso le epoche, di porre domande, rigenerando e rinnovando ogni volta se stessa. Dubito che un pupazzo di Cattelan o un coniglietto di Koons siano in grado di farlo attraverso epoche diverse dalle loro.
Hirst, Koons e Cattelan sono senza dubbio, in un certo senso, dei grandi artisti (pur se Hirst è l’unico che ci sappia smuovere qualcosa di profondo, di alto, estremo), ma non possono rappresentare la verità della Grande Arte Contemporanea, che ovviamente non può essere legata solo a ciò che è del proprio tempo, bensì a ciò che dal suo tempo appartiene al prima e al dopo, e quindi non apparterrà mai a un tempo preciso. Diremmo piuttosto che i tre esprimono in modo perfettamente organico e integrato la filosofia di un modello economico, sociale e politico che è allo sfascio (non serviva mica il Covid per dircelo), quello del progresso globalista a tutti i costi, quello del brand mediatico, del tocco del Re Mida che trasforma tutto in oro salvo poi non riuscire più a mangiare niente e morire di fame.
L’acciaio di Koons (ma così la formalina di Hirst e i manichini del se sul letto di morte di Cattelan) sono lo specchio esatto di ciò che è il nostro tempo, senza poter fuggire da esso, destinati a morirvi o forse già morti. Ovvero il tempo del lifting, del falso che diventa vero, del cadavere che viene imbellettato, dell’animale tassidermizzato. È il tempo della morte e della sua negazione come fatto fondamentale, non un tempo cioè che heideggerianamente affronta la morte come destino, ma il morto putrefatto o imbalsamato o coperto con un lenzuolo o vetrinizzato senza più anima, il cadavere puro e semplice.
Si badi bene, sono proprio di questo tipo le opere della triade esaltata da Politi versus l’artista “fuori dal tempo e dalla storia della creatività e dell’innovazione” come la sua Umbria in cui ha scelto di ritirarsi (ma non era forse umbro anche il grande Burri artista Campione del Mondo, parodiando le classificazioni del pur umbro Politi?).
Hirst, Cattelan e Koons sono senza dubbio il destino dell’arte contemporanea, ma ne sono la sua decadenza, come supernove o nane bianche. Tra gli oggetti più luminosi dell’Universo poco prima di diventare buchi neri e scomparire alla vista. Mentre invece i più luminosi come le quasar lo sono solo perché, nella loro breve esistenza, stanno per essere inghiottite da un buco nero. Tutto ciò in tempi cosmici per l’umanità interminabili, per l’Universo un battito di ciglia: una metafora perfetta per quello che sta accadendo nell’arte contemporanea. Che possano presto o già essere sostituiti dall’artista africano di turno (“un gioco. E un divertimento” per il sistema, come osserva giustamente Politi) dimostra appunto che sono già cadaveri anche se ancora attivi e con quotazioni alle stelle. Lo sono perché pezzi di un ingranaggio, non liberi di girare in senso anti orario o a vuoto o star fermi.
Per loro è necessario aumentare sempre di più il volume di affari, alzare la posta in gioco (la mostra The Wreck of the Unbelievable di Hirst, il progetto fallito della locomotiva sospesa di Koons a Los Angeles e l’antologica All di Cattelan al Guggenheim di NY), ma il limite è già dentro le loro imprese. Nella fisica dei buchi neri si chiama orizzonte degli eventi dato dal raggio di Scahwarschild e/o dalla massa di Chandrasekhar. Non puoi fare niente di più da un certo punto in poi per evitare il collasso. Ma come in questi casi più che crescere sarebbe meglio decrescere felicemente!
Ecco, qualsiasi cosa possano fare Hirst, Cattelan e Koons sono già collassati, sono controfigure di se stessi, buchi neri evaporati. Altro che eterne, le opere di Koons sono solo lo specchio del nostro tempo. Ma appunto per questo motivo in esse non vediamo delle opere d’arte, vediamo attraverso di loro il tempo che scorre e si riflette.
Se Ceccobelli (e come lui tanti altri artisti) sia indietro o avanti rispetto al tempo di Hirst, Cattelan e Koons poco importa. La morte per lui sarà o destino o ricominciamento, crediamo o no al senso mistico della sua arte. Morale della storia: se c’è un’arte di serie A, ce n’è anche una che appartiene a un altro tempo, eretica, contraria, anacronista. Quale delle due sia migliore lo dirà il tempo, ma non il nostro. Le osservazioni di Politi però un suggerimento lo danno: che esiste un’arte del Capitalismo (disumana, cinica, affaristica) rappresentata da un’ideale triade Hirst-Koons-Cattelan. Ma che ne esistono altre Umanistiche in cui potremmo inserire Kiefer-Viola-Penone ad esempio, altre ancora Mistiche in cui rientrerebbe un Ceccobelli e chi come lui. Nessuna classifica di serie A, B o C, ma solo modi diversi di appartenenza al mondo dell’arte.
Marco Tonelli