Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management della Cultura e dei Beni Artistici” di Rcs Academy”, tenuto nel mese di gennaio 2021 da Luca Zuccala, vicedirettore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.
Solitudine, condivisione, amore: tre parole all’apparenza antitetiche ma essenziali per descrivere la ricerca di Nicholas Viviani (1992, vive e lavora in provincia di Monza e Brianza). Viviani è un artista fotografo artigiano (ha esposto anche alla Triennale di Milano -in occasione del premio Prina 2019 di cui è stato finalista- e la Florence Biennale (Biennale internazionale d’arte contemporanea di Firenze) la cui poetica si concentra su tre filoni principali: “Alone”, “Back To Colour” e “Minimalism”. Lo abbiamo incontrato.
Potresti raccontarci il tuo background e come ti sei approcciato al mondo della fotografia autoriale?
Innanzitutto, ho una formazione giuridica e mi sono laureato in Giurisprudenza con una tesi sulla tabula picta che è vista come l’anello di congiunzione tra il diritto romano e il moderno diritto d’autore. Attualmente, sono un fotografo. Mi sono approcciato alla fotografia perché era il mezzo più efficace per rappresentare i disegni della mia mente, per mettere in risalto una serie di tematiche sociali legate alla solitudine. La fotografia è anche legata alla sfera personale. Come diceva Ansel Adams, la fotografia è lo specchio e il risultato del proprio bagaglio personale e delle esperienze che hai vissuto. Tutte le esperienze – piacevoli e non – interagiscono con la tua psiche. Perciò, alcuni accadimenti alterano la tua psiche e ciò si riverbera sul modo che hai di comunicare e sui mezzi che utilizzi per farlo. Per me la fotografia è stata il mezzo più efficace per urlare e per esprimere me stesso. La fotografia non è solo tecnica; la fotografia si vive perché è specchio della persona. Infatti, alcune mie opere sono una provocazione alla fotografia commerciale perché le ho create con una granulosità accentuata come per dire che anche se una fotografia è granulosa o sfuocata è in grado di esprime comunque il pensiero. Un conto è il mondo della tecnica e un conto è il mondo del pensiero.
Potresti descrivere il processo creativo dietro alle tue opere?
Io sposo l’idea del fotografo-artigiano: un fotografo che non delega, che segue e conclude tutto il processo creativo. Parto dallo scatto, scelgo la carta (carta cotone) e gli inchiostri a pigmenti naturali. Ho scelto di limitare il numero degli esemplari (il massimo di esemplari della medesima opera è 5). Anche le cornici sono a km 0, costruite da uno studio poco distante da me. Perciò, il fotografo-artigiano predilige il contatto con i suoi interlocutori e riduce quasi a zero la delega.
Il tema della solitudine: tema molto profondo, ambiguo e attuale (a causa dei lunghi periodi di lockdown). Potresti parlare di come ti sei avvicinato a questo tema? Come stai vivendo e interpretando la solitudine in questo periodo?
I miei progetti “Alone” e “Back To Colour” trattano della solitudine dell’uomo nella società moderna. È nato tutto da una mia riflessione personale concernente i social media: essi costituiscono un mondo molto attuale, apparente, caratterizzato da una popolarità fittizia data da like e interazioni ma quando le luci di questo mondo moderno si spengono siamo da soli con le nostre paure, frustrazioni, insicurezze e incapacità… quindi, ci troviamo da soli con la nostra mente e il nostro essere. In sostanza, i tempi sono cambiati ma i problemi di base – del nostro essere interiore – sono i medesimi. Da ciò sono nati i miei progetti: evocando la solitudine attraverso una sagoma. Ho girato l’Italia e l’Europa alla ricerca di sagome che potessero entrare a far parte dei miei lavori.
La solitudine è uno stato soggettivo. Tutte le sagome che produco riflettono quello che sono io e la mia interpretazione di solitudine ma la cosa affascinante è che ogni persona può trovare se stessa e versarci il proprio vissuto. Il mio lavoro si conclude solo nel momento in cui il fruitore riversa la propria storia nella sagoma.
Per quanto riguarda l’interpretazione della solitudine in questo periodo particolare, l’ho percepita però è importante incanalare tutte quelle sensazioni che possono essere recepite dalla nostra mente come negative in qualcosa di positivo quindi, io ho scelto di far fruttare questa solitudine e ho pensato tanto a nuovi lavori e supporti per essi. Ad esempio, ho creato una nuova produzione di pezzi unici su pellicola, inserita in un doppio vetro museale, con una cornice smaltata e lavorata a mano. Ho scelto di continuare a stimolare il flusso delle idee. In questo periodo di stasi è importante che il motore delle idee non si fermi.
In una tua intervista precedente (riferendoti alla fotografia commerciale) hai detto che il fotografo è in grado di percepire l’emozione di un momento e immortalarla. Quindi – per la fotografia autoriale – come fai a capire che un certo momento/una certa sagoma deve essere immortalata? Ti figuri già l’opera nella tua mente? Percepisci l’emozione del momento? Cosa c’è dietro?
Alcune opere è come se fossero già scritte. La progettualità è fondamentale. Sta nell’essenza stessa del progetto avere una serie di scatti da far combaciare. Per quanto riguarda la creazione stessa dipende: moltissime sono estemporanee quindi, parto per una città con l’idea di cercare un determinato scatto ma non mi reco con tutto scritto anche se spesso ho già l’idea di quello che voglio trovare. La genuinità del momento può stravolgere tutto. Di conseguenza, sul progetto potrebbero prevalere le emozioni del momento. Ad esempio, nel 2018, in Emilia Romagna, pensavo di fare una serie di immagini a colori sulle orme di Luigi Ghirri però ho deciso di scattare in bianco e nero perché tale stile avrebbe enfatizzato maggiormente il concetto che volevo rendere.
Potresti parlare della mostra tenuta nel 2018 all’Art Shopping Paris – Carrousel Du Louvre? Come ci sei arrivato? Cosa ha significato per la tua carriera?
Una curatrice mi ha invitato ad esporre all’Art Shopping Paris. È stato un traguardo importante come tutti gli eventi internazionali a cui ho partecipato (Triennale di Milano; Florence Biennale…) perché sono stati momenti in cui ho dialogato con ambienti internazionali che non conoscevo e da cui non ero stato ancora contaminato. Ogni evento mi ha permesso di crescere, di conoscere artisti, di conoscere persone e di conoscere idee. Quindi, venendo a contatto con altri si perfeziona se stessi e il proprio modo di comunicare. Questi eventi pieni di condivisione di pensiero fanno l’artista.
Qual è la mostra che meglio rappresenta l’artista Nicholas Viviani?
Ogni evento è unico e mi rappresenta a suo modo perché porta con se turbamenti, momenti di vita e momenti storici differenti. Ogni evento è uno spaccato di vita. Però la mostra personale “The Human Path” alla Fondazione Luciana Matalon (febbraio 2020, Milano) l’ho vissuta come spartiacque tra la vita di prima (precovid), la realtà attuale in cui la cultura si è fermata e una successiva rinascita. Inoltre, sono stato emotivamente coinvolto anche alla mostra personale al Gate 16 (ottobre 2020, Milano) perché è nata dalla condivisione di discorsi astratti sull’arte tenuti tra me e un mio caro amico. Anche qui si è realizzato lo scopo intimo dell’arte: la condivisione di idee.
Hai progetti futuri?
Per ora continuerò a sviluppare “Alone”, “Back to Colour”, “Minimalism” e “Freedom” che sono progetti permanenti e aperti. Però il bello del lavoro dell’artista è che ci sono sempre tante idee che prendono forma con il tempo quindi, chi lo sa? Solo il tempo saprà darmi delle risposte.