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L’intuizione della pittura a olio. Conversazione con Sophie Westerlind

Sophie Westerlind Sophie Westerlind
La cucina di Imelda 85 x 110 cm, Olio su lino, 2018
La cucina di Imelda
85 x 110 cm, Olio su lino, 2018 (Foto Marco Cappelletti)

A tu per tu con la pittrice Sophie Westerlind (Stoccolma, 1985).

Racconta un po’ di te, se ti va. Cosa c’era nella tua vita prima di venire in Italia e perché hai deciso di studiare e vivere qui?

Ho un percorso lungo e strano ma cercherò di spiegarlo senza dilungarmi troppo.

Ho iniziato a studiare italiano nel 2005, all’Università di Stoccolma, dove ho vinto la borsa Erasmus che mi ha permesso di vivere per un anno a Padova, tra il 2006 e il 2007. Ci venivo per la prima volta e ricordo che ero felice di poter studiare materie come storia dell’arte e filosofia, che erano praticamente inesistenti al liceo in Svezia. Ovviamente ho faticato tanto all’inizio, sia per via della lingua che per il sistema universitario italiano, ma fin da subito si è creato un legame indissolubile, per cui non sono mai più riuscita a staccarmi da questo paese.

Ho sempre avuto intenzione di intraprendere studi artistici e così, l’anno successivo, mi sono iscritta a Londra alla Central Saint Martins, dove sono stata accettata per il percorso di studi triennale, per poi continuare al Royal College of Art dove mi sono laureata nel 2013 in Visual Communication – Master of Arts. In questi anni, dal 2007 al 2013, ho sperimentato tanto, soprattutto con il disegno. La maggior parte dei progetti che ho realizzato erano legati a temi che tuttora, in parte, mi interessano, come ad esempio gli oggetti e i luoghi che raccontano qualcosa della vita di una persona, i linguaggi del corpo come espressione di personalità ed emozioni.

Poi sei tornata in Italia.

La mia visita a Napoli, nel 2012, è stata cruciale. Ero stata invitata da un’amica napoletana che studiava insieme a me a Londra. Fin da subito mi hanno colpita il contatto umano, la costante presenza del tema della morte (anche in un barattolo di vetro a casa della mia amica), e la teatralità della città. Ricordo quanto fosse strano e quasi frustrante, dopo, tornare dai miei genitori a Stoccolma: mi sembrava di aver scoperto un segreto che nessuno in Svezia poteva veramente capire!

Raymond Dubois and the bright-green scotch tape 40 x 50 cm, Olio su lino, 2020
Raymond Dubois and the bright-green scotch
tape
40 x 50 cm, Olio su lino, 2020 (Foto Marco Cappelletti)

Ora devo sapere cosa c’era nel barattolo della tua amica.

La mia amica mi ha raccontato che sua nonna in casa aveva un barattolo di vetro con dentro un teschio, davanti al quale andava a pregare ogni volta che la mia amica doveva fare un esame all’università. La presenza della morte nella quotidianità a Napoli mi ha colpito moltissimo. Forse perché vengo da un paese protestante dove la religione e la morte sembrano meno presenti nella vita di tutti i giorni delle persone.

Anche per questa specie di fascinazione ti sei trasferita in Italia.

Sì, anche. Dopo la laurea ho deciso di frequentare l’Accademia a Venezia, che ho scelto sia per il corso di anatomia sia per la sensazione che questa città mi dava. Il trasloco è stato difficile e quando mi sono trasferita, nel settembre 2013, mi sentivo molto persa. Inizialmente ho passato un momento abbastanza critico – mi ero lasciata dopo quattro anni con il mio ragazzo e dovevo cercare di costruire una vita in un posto nuovo – ma è stato proprio qui che sono riuscita a crescere sia come artista che come persona.

Sophie Westerlind
Sophie Westerlind (Foto Marco Cappelletti)

Ripensando alla tua permanenza in Inghilterra, ai tuoi studi e ai tuoi ritratti, mi sono venuti in mente quelli di Graham Sutherland e i suoi tentativi di creare una forte empatia col modello. L’artista utilizzava il colore secondo due funzioni principali: la forma e l’atmosfera. Si vede, in maniera diversa, come nei suoi e nei tuoi lavori, il colore crei forme e stati emotivi. Nel tuo caso però, mi sembra ci sia più luce, come se il colore stesso ne fosse costituito rendendo l’atmosfera vibrante e ancora più intensa.

Grazie per aver pensato ai ritratti di Graham Sutherland, che trovo bellissimi! L’empatia con il modello sembra evidente, c’è tanta emozione negli sguardi e nelle posture. Vorrei tanto vederli dal vivo. Ne avrò visto qualcuno a Londra, ma in quegli anni ero focalizzata su altri pittori, in particolare Alice Neel, Chaim Soutine e Frank Auerbach. Ovviamente mi piacciono tutti ancora, ma in maniera diversa, credo.

Quando dipingo mescolo il colore su una lastra di vetro. La scelta del colore è intuitiva. Capisco subito se una tonalità è “sbagliata” o non c’entra niente con le altre. Le decisioni sono ovviamente soggettive: a volte può sembrare giusto un neon verde accostato con delle terre, se desiderato per quella composizione. Dico sempre che non so dipingere, teoricamente: non saprei mai, per esempio, insegnare come dipingere ad olio. Credo tutto sia basato su un’intuizione, nel bene e nel male.  Mi piace usare l’olio perché molto diretto e per la sua consistenza. La scorsa primavera ho provato a dipingere con gli acrilici, ma non mi sono trovata bene.

Come nel disegno, utilizzo le pennellate per costruire delle forme e dare un ritmo alla composizione. Credo che lo scopo del lavoro sia sempre cercare di trasmettere uno stato emotivo.

Hai concluso da poco un progetto per FINCANTIERI. Raccontaci di questo lavoro.

Si è trattato di un progetto di disegno dentro la fabbrica di Fincantieri a Marghera. In realtà volevo concentrarmi più sugli interni che sulle figure, poiché lo spazio condiziona molto il mio lavoro. Sono rimasta colpita dalla teatralità del luogo che presentava spazi enormi, come se ne trovano solitamente all’esterno. Interessante anche il gioco di luci e ombre. Durante gli anni a Venezia non mi ero mai confrontata con la città come luogo della mia pittura: ho dipinto ritratti di persone che hanno fatto e fanno parte della mia quotidianità qui, ma non ho mai veramente utilizzato i luoghi della città come soggetto. Nella mia ricerca pittorica ho guardato molto le città di porto (Napoli, Marsiglia, Palermo, Beirut), ma non Porto Marghera, che fino a poco tempo fa era per me un posto sconosciuto.

Sophie Westerlind
Sophie Westerlind (Foto Marco Cappelletti)

Il porto è un luogo che affascina da sempre. Luogo di gente che arriva e che va, luogo di tempeste e di acqua che si fa quieto specchio del giorno e della notte e di molti pensieri. Un luogo sicuro, che protegge la nave dalle mareggiate, anche se essa non è fatta per stare lì ma per salpare e affrontare quello specchio profondo dello spirito che a volte può essere luminoso e limpido, a volte oscuro e burrascoso. Baudelaire ammoniva: “Uomo libero. Tu amerai sempre il mare.” Ecco, nel mezzo, tra la libertà terrificante del mare e noi, c’è il porto. Una linea di mezzo. Tu con quale animo e con quale ricerca ti avvicini ad esso?

Sono attratta soprattutto dagli elementi architettonici e dalle mura di cemento nel contesto dell’ambiente naturale, dalla presenza dell’acqua e della luce particolare. Ma anche dal movimento quotidiano delle persone. Certi luoghi stimolano l’immaginazione facendo pensare a dei possibili eventi e incontri, sia nel presente che nel passato. Negli ultimi mesi ho lavorato su una serie di quadri ispirati da un film di un amico, dove la figura si trova in uno spazio semplice, in questo caso una sala riunioni a Maastricht. Questi dipinti potrebbero dare l’idea del tipo di spazio che mi interessa a Porto Marghera.

Sophie Westerlind
Sophie Westerlind (Foto Marco Cappelletti)

Non sembrano estrapolati da un film, non hanno l’aria passeggera del frame. Se erano attori veri, questi soggetti, ora non lo sembrano più: hanno una presenza attonita, distaccata e allo stesso tempo comprensibile e viva. Rimandano all’idea di uno spazio senza tempo o, meglio, dove il tempo scorre e lo si vede mentre passa, ma nulla cambia. Tornando a Fincantieri, in un disegno di un interno, un ufficio, il punto di vista si sovrappone a quello della pianta, facendomi sentire dentro quel vaso sul tavolo, dentro lo spazio dell’ufficio che pare carico di oggetti. La figura della donna nuda sul calendario dialoga con la pianta, che getta su di essa una diagonale e inizia un discorso. Due presenze importanti che compartecipano nell’ufficio per raccontare una storia. Sei passata dai grandi esterni del cantiere, che faceva le persone piccole come formiche, agli interni, dove le formiche trovano la loro dimensione ideale.

È bellissimo pensarlo così! Ed è vero: gli spazi interni sembrano quasi l’interno di un formicaio, stretti e con moltissimi dettagli.

Penso che per gli interni tu abbia un tocco molto particolare.

È stato bello riuscire a dipingere dentro, ma allo stesso tempo ho capito che devo cercare di dimenticare questo luogo, altrimenti diventeranno, questi dipinti, un po’ come i disegni dei primi giorni di residenza, un po’ spaventati. Anche oggi il tuo pensiero del formicaio mi ha ispirato, soprattutto per lavoro di domani.

Allt stort och tungt såg väldigt litet ut från taket 40 x 50 cm, Olio su lino, 2020
Allt stort och tungt såg väldigt litet ut från taket
40 x 50 cm, Olio su lino, 2020 (Foto Marco Cappelletti)

La pittura che fai, quella della tua generazione, a chi ritieni appartenga? Qual è il suo pubblico?

Vorrei che la pittura fosse disponibile per tutti da guardare e contemplare. È un problema dell’artista se il quadro non parla da solo. Le reazioni più spontanee e dirette le ho ricevute da persone non specializzate in arte o in cultura in generale. A Sciacca, in Sicilia, durante una mostra all’aperto in un quartiere degradato un bambino di sette anni mi ha chiesto “Perché non dipingi mai gli occhi?”. E così qui, a Porto Marghera, un operaio di un cantiere mi ha chiesto se avessi fatto le linee storte di proposito, perché le funi che avevo disegnato, nella realtà sono sempre dritte. Vorrei che la pittura fosse sempre vissuta così, vista senza troppo rispetto da un pubblico misto con esperienze diverse. Io come autore imparo moltissimo dalle reazioni degli spettatori perché mi indicano come l’opera viene percepita veramente.

Vorrei che le collezioni permanenti dei musei fossero all’aria aperta così potrebbero essere vissute come un soggiorno. Si potrebbe andare a osservare la stessa opera per dieci minuti ogni giorno in pausa pranzo, se il tempo lo permette. Una parte fondamentale per la mia crescita come pittrice è stata lo studio diretto delle opere e degli oggetti esposti nei musei. Non soltanto nelle città dove ho studiato, ma ovunque andassi. Potersi confrontare con i capolavori dei maestri oppure con una scultura minuscola paleolitica, permette di imparare a comunicare con gli spettatori attraverso dei segni. Credo sia importante imparare a vivere gli spazi dei musei già da piccoli per far viaggiare l’immaginazione.

Penso che la pittura della mia generazione sia una reazione agli stimoli che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo. Dedicare la vita alla pittura è talmente complicato, costoso e complesso e richiede sempre un buon motivo… venendo in continuazione messa in questione e giudicata “fuori moda”.  Quest’anno, durante una mostra collettiva, un collega artista più anziano, intorno a 75-80 anni, mi ha detto che il mio quadro esposto sembrava “dipinto da un uomo”. Mi chiedo ancora cosa intendesse dire.

Sophie Westerlind
Sophie Westerlind (Foto Marco Cappelletti)

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