Un’esplorazione nel paesaggio prodotto dall’uomo e dalla natura è quella condotta da Stefano Comensoli (Milano, 1990) e Nicolò Colciago (Garbagnate Milanese, 1988) in cui la materia “potenza simbolica”, diviene depositaria di storie ma anche origine di “un dialogo sensibile e universale”. Duo artistico e parte del progetto Spazienne (luogo di ricerca e sperimentazione, fondato con Federica Clerici, Alberto Bettinetti e Giulia Fumagalli), indagano attraverso i residui, i resti e le memorie tangibili, un sostrato di esperienze, restituite attraverso il fluire della coscienza-conoscenza più autentica.
Lo spazio e il tempo, queste “forme a priori della sensibilità” (come dice Kant), sono al tempo stesso l’oggetto e la materia dell’attività simbolica.1
Pensando alla vostra ricerca non ho potuto fare a meno di riprendere questa citazione da uno dei più grandi antropologi della contemporaneità, intorno alla quale vorrei fare con voi una serie di riflessioni. La prima è strettamente connessa all’antropologia: prelevate elementi della cultura materiale, prodotti della società industrializzata (spesso scarti), oggetti ma anche memorie, sottoposti a un ulteriore processo di decostruzione e trasformazione.
Il punto di innesco del nostro lavoro è legato all’esplorazione interiore vissuta nel legame tra uomo e paesaggio; mentre la materia permette la traduzione, è un mezzo con potenza simbolica, è esperienza vissuta. Negli anni abbiamo sviluppato una pratica di attraversamento lento e profondo del territorio: fabbriche, periferie, boschi, colline o intere regioni. Affrontiamo zone al limite, spesso abbandonate, di origine naturale o industriale, che assumono la valenza di una camera che amplifica il nostro tempo. Andiamo in questi luoghi per capire, per approfondire e non per nasconderci o fuggire. Alziamo al massimo il nostro livello di sforzo e stress fisico perché sono condizioni che ci portano a liberare la mente dalle distrazioni, l’immersione totale ci permette di raggiungere l’essenziale. Alla base di tutto c’è una scintilla, una tensione verso la scoperta di noi.
Più esploriamo, più sentiamo risuonare qualcosa dentro. Una volta raggiunta quella concentrazione, quel punto focale, iniziamo a prelevare la materia. Il motivo per cui la scegliamo è legato a una sensibilità visiva ed emozionale, che la trasforma in un catalizzatore di intenti e visioni. Partiamo da oggetti che già esistono per non aggiungere qualcosa a priori, preleviamo veri pezzi di paesaggio, frammenti connotati di memoria tangibile; ce ne prendiamo cura, ne studiamo la natura per poterli utilizzare, valorizzare e trasformare al meglio. Il materiale ci permette di creare un ponte verso una visione altra, ribaltata, modellata e connessa al piano sensibile, in un continuo rimando tra realtà e astrazione. Non mettiamo in discussione il passato di qualcuno ma il nostro presente. Rispondiamo al desiderio di andare oltre, di aprire una domanda per intensificare una risposta.
La seconda riflessione è riferita all’oggetto della citazione, che ruota intorno ai concetti di spazio e tempo. Lo spazio, inteso come luogo in cui lavorate o dove vi trovate a lavorare (penso a Multiverso, Piccolo esercito, Dislivello…), ma anche come “forma” delle vostre opere; e poi il tempo che agisce direttamente sulla vostra ricerca: usate materiali che conservano una stratificazione temporale sulla loro superficie, che si formano proprio attraverso l’esperienza con il tempo.
Spazio, tempo e materia sono per noi esperienza vissuta e componenti per la generazione di mondi. Creiamo zone in divenire, contenitori di complessità, di riflessioni e forzature. Cerchiamo e restituiamo ciò che ci manca e che troviamo nell’unione dei tre elementi. Lo spazio è fondamentale. Il lavoro deve rapportarsi con l’ambiente in cui si inserisce, deve entrare in dialogo e, in alcuni casi, un tutt’uno con esso. Giochiamo con le funzioni degli spazi che scegliamo di trattare, creando cortocircuiti nel rapporto tra lavorazione, riflessione, installazione e restituzione. Ad esempio: lo spazio di lavorazione può coincidere con lo spazio dell’esposizione, come nel caso di Multiverso o del Piccolo esercito. Altre volte il lavoro stesso diventa spazio come per Risulta (dislivello) o Impalcature.
Rispetto al tempo abbiamo sviluppato una consapevolezza: è un filtro, un vero e proprio reagente. Modifica le cose in superficie e in profondità. Racchiude la vita e si manifesta attraverso un linguaggio ben preciso: la materia che modelliamo porta i segni del tempo, i dettagli, le imperfezioni irripetibili che ne traducono la voce. Interessante osservare come nel tempo sia indissolubile il dialogo tra gli elementi e il loro vissuto e come questo ne cambi l’aspetto. Come nei pavimenti ribaltati di Visioni di un oltre, che mostrano i segni dei collanti, i gesti che li hanno generati e il suolo che rimane aggrappato. Il tempo porta la materia a sviluppare la sua anima e noi abbiamo bisogno del tempo per ascoltarla, impararne il linguaggio e modellarla. Se ci pensi il dialogo si basa sempre su una componente temporale, per parlare con chiunque hai bisogno di tempo, e quello è esattamente ciò che cerchiamo.
La terza riflessione riguarda la natura simbolica come risultato di quel procedere. Tornando al concetto della memoria, e pensando anche ai titoli delle vostre opere, quale storia ci raccontano? O quali storie volete raccontare?
Il titolo è uno strumento poetico che abbiamo scelto di fornire, la porta da cui entrare. È una traduzione, una visione del lavoro, un messaggio di benvenuto, come la scritta ‘Welcome’ sullo zerbino di casa. Semplice, evocativa e inclusiva. Le storie che raccontiamo sono narrazioni in divenire. Cerchiamo di creare sceneggiature aperte fatte di ambienti e soggetti, in cui trovare il proprio posto. Elementi che non hanno nessun motivo apparente per essere descritti, racchiudono in realtà tutta la complessità di una gamma emotiva. Non raccontiamo una storia ma la stiamo vivendo.
Partendo da queste ultime considerazioni, mi piacerebbe sapere come si è evoluta nel tempo la vostra ricerca.
La ricerca è nata e si è evoluta in una dinamica di confronto sempre più densa, interrogandoci su modalità e pensieri, allenandoci a uno sguardo consapevole verso ciò che attirava la nostra attenzione e fantasia. Abbiamo analizzato e studiato tecniche di costruzione e arrangio attingendo da cantieri e campagne, portando al centro la necessità di espressione di un pensiero, innescando un meccanismo di essenzialità e responsabilità. Usiamo la ricerca come un momento di crescita coerente con la vita, trovando coraggio nelle scelte autentiche. Con scambi di gesti e oggetti abbiamo imparato a conoscerci, fino a che non siamo tornati spontanei. Da lì, abbiamo potuto aprirci alla materia e agli altri. Ogni gesto, ogni ritrovamento non è più stato solo per noi. Ogni giorno cresce la volontà e il bisogno di parlare di cose semplici, conosciute ma mai scontate, per tendere sempre di più verso un dialogo sensibile e universale.
Il 2020 è stato un anno complicato per tutti ma voi siete stati molto produttivi: Eternamente grata, Fase dispersa, Visioni di un oltre – Quiete nella tempesta, Madreperla, etc.. Come lo avete affrontato e come sono nate quelle opere?
È un anno che ci ha mostrato tante facce. Tutti i lavori che hai citato sono nati durante Lì dove nascono le forme del vento, la nostra ultima personale alla galleria Otto Zoo che si è conclusa prima del lockdown. Pensando alla ricerca come un flusso “inspira – espira”, possiamo dire di essere stati fortunati: siamo arrivati alla chiusura di marzo con il bisogno di tornare alla purezza dell’indagine e della riflessione, permettendoci di mettere a fuoco alcuni aspetti della nostra ricerca per poterli ampliare nei mesi successivi. Il nostro lavoro in questo tempo di limitazioni è diventato il nostro spazio principale da esplorare. Per la prima volta da qualche anno abbiamo approfondito delle serie (Visioni di un oltre, Conformazioni, Sigilli, Fase dispersa), abbiamo sviscerato il materiale a fronte di forme, cromie, formati e sensazioni.
Siamo andati in profondità dandoci il tempo di assaporare aspetti che altrimenti sarebbero rimasti silenti. Successivamente, nelle nostre rare ma preziose esplorazioni, abbiamo potuto attraversare nuovi luoghi, trovare materiali e storie che ancora non conoscevamo. Ci siamo concessi lunghi momenti per scorgere e approfondire anche i dettagli più oscuri che ci hanno accompagnato nell’ultimo periodo. Quando accetti e conosci qualcosa lo condividi con meno paura, da qui nasce il corpo di lavori Incanto e Paranoia, nato a fine 2020 con l’installazione site-specific da Mucho Mas a Torino.
A cosa state lavorando in questo momento e, per quanto possibile, quali prospettive o progetti per l’anno che verrà?
Ovviamente questa situazione ha toccato noi come gli altri. Da un lato abbiamo coltivato la parte più privata, ovvero il nostro studio, la nostra ricerca e nuove sperimentazioni cercando un dialogo più intimo con il fuori, fatto di visite delicate e confronti profondi. Dall’altra stiamo lavorando a una serie di progetti, di cui alcuni oltre confine, che troveranno forma appena sarà possibile, ma che ci stanno motivando da un punto di vista di apertura, rispetto ad una purezza di ricerca.
Questo contenuto è stato realizzato da Elena Solito per Forme Uniche.
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1 Augé M., L’antropologo e il mondo globale, Milano, Cortina Editore, 2014, p. 33, 34
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