Io da parte mia non li ho mai capiti, né ho trovato, per tutte le indagini che ho fatto, qualcuno che li capisca. È così che il Vasari, nella biografia dedicata al Giorgione, del 1568, definì la sua attività pittorica.
In realtà, Vasari, aveva intuito qualcosa: Giorgione, o Giorgio il Grande, è una delle figure più enigmatiche della storia dell’arte occidentale.
Morto in giovane età nella terribile peste del 1510, dipingendo probabilmente meno di 25 opere, è uno di quegli artisti cui poco si sa della sua vita e, ancor meno, del suo operato. Tuttavia, il nuovo testo di Tom Nichols, Giorgione’s Ambiguity (Reaktion Books, 2021), chiarisce il mistero che si nasconde dietro le opere dell’artista.
Partendo dai suoi masterpieces, Nichols mostra che, abbandonando le tendenze intellettuali dell’arte rinascimentale, Giorgione riesce a realizzare un mondo dai significati sempre più imperscrutabili. I suoi dipinti, dalle pennellate nebulose e con colori non convenzionali, composizioni particolari e figure enigmatiche, sono in grado di attirarci.
Pur vivendo in un’epoca in cui dominava la ratio e i dipinti erano auto-esplicativi, in quanto retti da trame chiare e significativi fissi che rafforzavano l’ordine sociale, la sua scelta di realizzare opere, completamente lontane da quegli schemi, fu il compimento di un cambiamento radicale contro le norme del tempo. Mentre altri artisti del Rinascimento guardavano alla grandezza, le sue opere, nonostante fossero di piccole dimensioni, miravano ad attirare l’attenzione, attraverso la messa a fuoco morbida del colore e un’intenzionale elusività visiva, rendendo però difficile agli spettatori la capacità di discernere ciò che stava accadendo e ciò che effettivamente volevano significare.
Un esempio è Laura, un ritratto del 1506, in cui l’ambiguità del gesto della fotografa rende impossibile dire se sta rivelando le sue nudità o le sta coprendo. O, Venere (c. 1510-11), un nudo reclinato, completato da Tiziano dopo la morte prematura di Giorgione, in cui gli occhi chiusi della donna e la mano arricciata suggeriscono che si stia concedendo al piacere, ma è impossibile esserne sicuri.
Nichols, nella sua opera, spiega, allora, che Giorgione vede lo spettatore «come intensamente soggettivo e sensuale»: colui che, guardando le sue opere, si lascia a interpretazioni sovrapposte e contradditorie. Difatti, la sua opera più celebre, la Tempesta(c. 1509), ha lasciato perplessi, per secoli, studiosi e spettatori; nuovamente, l’artista, resiste alla chiarezza narrativa presentando figure solitarie, i cui scopi sono clamorosamente poco chiari, all’interno di un paesaggio onirico e arcano.
Come insiste l’autore, i suoi capolavori si prestano a innumerevoli letture, adescandoci di volta in volta. Tuttavia, se essi continuano ad essere ambigui, il testo di Nichols non lo è affatto. La sua indagine è un modo per comprendere come, anche in un’epoca governata da schemi e convenzioni, Giorgio il Grande sia riuscito a creare composizioni profondamente psicologiche e unicamente interattive.