Avevamo incontrato Maurizio Vicerè, in arte Vice, ormai quattro anni fa. Da quella prima intervista molte cose sono cambiate, e il suo percorso si è fatto più maturo da una parte e più trasversale dall’altra. In mezzo c’è la ricerca e lo sviluppo della sua pratica, che passa anche attraverso scelte, per certi versi, difficili e contro correnti, come quella di abbandonare Ultrastudio (che ha aperto di recente una terza sede a Tokyo) per dedicarsi a nuovi progetti personali. Questa chiacchierata vuole tirare le fila di quello che è successo nell’ultimo periodo, proiettandosi verso il futuro.
Guardando una vecchia intervista del 2017, sono rimasto molto colpito dalle fotografie delle opere, molto più pop rispetto agli ultimi lavori, che definirei “silenziosi”. Cos’è cambiato in questi anni? che valore ha il silenzio per te?
Sono felice si noti questo mutamento, questa maturità spero in parte raggiunta. Negli ultimi anni, complice forse la prossimità con molti artisti, sentivo il peso di una produzione non più mia. Non nego il valore e il senso di quelle opere, le riguardo ancora adesso e ne sono attratto. Probabilmente deve esserci stato un problema di iper-socialità con il lavoro di altri, così ho cercato la mia strada, il mio metodo di lavoro. Sento la necessità di liberarmi di quegli orpelli che minano la pretestuosità di un lavoro. Cerco di eliminare il più possibile mantenendo solo ciò che mi interessa davvero e questo non riguarda solo le opere che realizzo ma anche le fonti a cui attingo.
Riguardo al silenzio è innegabile che gli ultimi lavori non siano altro che attori muti su di un palcoscenico, in un teatro vuoto. Non hanno nulla da dire, nulla da mostrare ma esistono. Gli HH (HOLOGRAMS) si muovono lentamente per un effetto percettivo della retina che si abitua alla luce. Le superfici si dilatano e contraggono, i bianchi diventano neri e le zone scure schiariscono. Davide Da Pieve, un caro amico, ricercatore e curatore, li ha definiti “simulacri pittorici” e questa descrizione la trovo più che mai fedele a quanto voglio mostrare. Credo siano l’essenza di più stati emotivi. Al di là del tempo e delle mode, il silenzio è sempre l’abito migliore da indossare.
Una delle tue tele è diventata la copertina del progetto Another Use For Time. Da dove nasce l’interesse verso un progetto di musica elettronica? come entra la musica nella tua pratica?
L’idea di una collaborazione con Karl Fousek, autore dell’album, è venuta a Benjamin Lind Krarup della Label danese Phinery. Non è la prima volta che collaboro con questa etichetta di musica sperimentale registrata in analogico, su cassette e altri supporti. Mi piace l’idea alla base di questa ricerca di connessioni tra artisti audio e visivi. Poi il lavoro sviluppato da Karl è incredibilmente scultoreo, i suoni sono registrati in modo tridimensionale e un po’ rapsodico. Abbiamo collaborato al concept visivo dell’album e ho realizzato un’immagine della serie HH che fosse quanto più prossima a un whormhole, un portale oscuro. In generale trovo parte della musica sperimentale, specialmente la drone music, interessante per osservare i miei lavori poiché si viene a creare una certa distanza, una necessaria dilatazione spazio temporale.
Nel 2020 c’è stata una riscoperta della località e della prossimità, anche in modo un po’ ostentato. In questo senso Ultrastudio è stato un “anticipatore”, essendosi radicato da anni a Pescara. Che idea ti sei fatto di questa tendenza alla scoperta del locale? Come mai, proprio in questo momento, Ultrastudio si è mosso in senso opposto aprendo uno nuovo spazio a Tokyo?
ULTRASTUDIO è una realtà oramai affermata sia sul territorio sia a livello internazionale. Mi sembra doveroso annunciare la mia dipartita da US per scelte personali e soprattutto perché vorrei focalizzare maggiormente l’attenzione sul mio lavoro e altri esperimenti curatoriali. Sono orgoglioso di essere stato parte di una realtà partita da un quartiere periferico di Pescara e divenuta, negli anni, un progetto forte di uno storico di oltre cinquanta artisti, progetti curatoriali e, oggi, tre sedi tra Pescara, Los Angeles e Tokyo. In questo senso immagino che US si trovi ora ad affrontare un momento cruciale di ulteriore sviluppo per avere un’ottica ancora più internazionale. Se prima la ricerca poteva risultare orientata perlopiù verso un certo gusto occidentale, con l’introduzione di un distaccamento a Tokyo, la programmazione sarà ancora più bilanciata. Non posso che esserne felice e augurargli tutto il meglio per il futuro ma credo sia giunto per me il momento di concentrarmi su altro, insieme ad altri compagni di viaggio. Stiamo pensando a una rilettura del termine mostra cercando di spingerci al limite di ciò che si può esporre in un contenitore.
Vorrei mi raccontassi del tuo nuovo progetto.
Si tratta di un’idea che sto sviluppando insieme a Pierluigi Fabrizio, Giorgio Liddo e Cristiano De Medio. Ci siamo chiesti cosa possa fare oggi una realtà indipendente per differenziarsi da ciò che altri spazi fanno già piuttosto bene. Cinque anni fa gli spazi DIY si contavano, in Italia, sulle dita delle mani; oggi ce ne sono centinaia, almeno sei nella città di Pescara. Ci siamo detti: se vogliamo sviluppare un progetto dobbiamo provare qualcosa di diverso, e abbiamo iniziato a rileggere il significato del termine “mostra”. In uno spazio si può mostrare potenzialmente di tutto e le possibilità per provare progetti al limite sono infinite.
Tutto può essere degno di nota e messo in mostra, l’idea stessa di cultura è oggi più che mai trasversale. Stiamo lavorando ad alcuni progetti e ovviamente a tutto l’apparato multimediale necessario per lanciare ƎMERGE. Nelle prossime settimane usciremo con la comunicazione ufficiale, qualche anticipo sulla prossima programmazione e altre interviste. Siamo piuttosto elettrizzati, c’è una certa energia nell’aria. Gli show potranno risultare talvolta estremi ma contiamo sull’apertura mentale di chi ci ha sempre sostenuto e vorrà continuare a seguirci.
Questo contenuto è stato realizzato da Bianchessi Marco per Forme Uniche.
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