Torneremo a viaggiare, prima o poi. Torneremo a contemplare panorami stupendi, torneremo rimirare siti archeologici sbalorditivi. E torneremo a guardare male i “turisti”, quelli che rovinano tutto con i loro comportamenti inopportuni. In particolare, quelli che non si sanno godere l’attimo, non vivono nel presente, ma stanno costantemente con un aggeggio – macchina fotografica o smartphone che sia – in mano. O quelli che osano pensare di migliorare la perfezione della Natura con un filtro Instagram. Torneremo a lamentarci dei tempi moderni, senza sapere che tutto questo è già successo una volta.
La storia dello specchio Claude è una storia di arte e tecnologia, turismo e politica, natura e cultura. Soprattutto, è una storia molto curiosa e poco conosciuta: vale la pena raccontarla.
Tutto inizia con Claude Gellée o Gelée, nella nativa Francia detto anche “le Lorrain”, da noi italianizzato in Claudio Lorenese, e in Inghilterra noto semplicemente come Claude. Era un pittore del XVII secolo (nacque nel 1600 e morì nel 1682, a Roma) attivo fin da giovanissimo in Italia, considerato “il maestro nel genere del paesaggio ideale”. Ritraeva paesaggi in una luce soffusa, crepuscolare, e rovine di epoca romana che si stagliavano nella natura selvaggia. Tutta un’estetica artificiosa e un po’ decadente, che piaceva tanto, all’epoca, e ancora di più nel secolo successivo. Tanto che qualcuno s’inventò questo specchietto portatile, che rendeva la realtà simile a un dipinto di Claude Lorrain: di qui il nome di specchio Claude.
Com’era fatto? Si trattava di un piccolo specchio, spesso contenuto in uno scrigno richiudibile tipo quelli da trucco, che aveva la superficie scura e leggermente convessa; alcuni esemplari sono conservati in vari musei. Come si usava? Si raggiungeva il posto desiderato, si giravano le spalle al panorama, e si teneva lo specchio in mano, muovendolo qua e là per cogliere vari punti nel riflesso. Che effetti aveva? La forma convessa poneva lo sfondo della scena in lontananza, allargava la visuale e rendeva gli oggetti in primo piano messi a fuoco in maniera più nitida. Il colore scuro del vetro, per parte sua, uniformava la tavolozza di colori, rendeva la luce più soffusa e l’atmosfera più intensa; insomma più simile a un olio su tela che alla realtà. Ce n’erano anche di modelli avanzati, con filtri sovrapponibili di diversi colori, in modo da poter rendere lo stesso paesaggio immerso in una dorata luce autunnale, o raggelato in un freddo blu; la stessa scena poteva essere rimirata alla luce di una sfolgorante mattinata, di un tramonto, del chiaro di luna.
Lo specchio Claude veniva utilizzato da pittori di scarso talento, che così potevano facilmente vedere – e imitare – quello che i veri artisti contemplano con gli occhi dell’anima (un po’ come quelle app divertenti che trasformano qualsiasi foto in un Van Gogh). Ma rapidamente divenne una moda anche tra i semplici viaggiatori e turisti: non per dipingere, ma solo per guardare. Un grande utilizzatore e sponsor dello specchio fu il poeta Thomas Gray, il pre-romantico dell’Elegia scritta in un cimitero di campagna, che ne parla nel suo diario di viaggio nel Lake District. Così identificato con lui era lo strumento, che per un periodo fu più noto come specchio Gray, o specchio grigio. Il poeta racconta anche che una volta era così perso a contemplare il tramonto nello specchio, che cadde all’indietro facendosi male: simili incidenti non dovevano essere infrequenti.
Altro grande sostenitore dello specchio Claude fu il reverendo William Gilpin, viaggiatore, artista e soprattutto inventore del concetto di pittoresco. Il pittoresco – termine che noi oggi associamo a concetti come folkloristico e kitsch – venne individuato come una categoria a metà tra il bello (perfezione, ordine, piacevolezza) e il sublime (natura selvaggia, forze incontrollate). Alla lettera, come il popolar-esco è “simile al popolare”, pittor-esco è “simile alla pittura”: quello che puoi vedere con lo specchio Claude, appunto. Gilpin addirittura se ne fece montare uno in carrozza, così da ammirare il paesaggio mentre viaggiava, ma non semplicemente guardando dal finestrino.
Il grande momento dello specchio Claude – ‘700 e prima metà dell’800 – corrisponde a un mutamento nel gusto estetico: nel modo di guardare, e quindi nel modo di viaggiare. Per esempio, il distretto dei laghi, o Lakeland, nel nord dell’inghilterra, fino a tutto il 1600 era considerato un posto squallido e triste. Ora, le stesse caratteristiche lo rendevano pieno di fascino e degno di essere eletto a meta turistica: un giudizio che non cambierà più, perché oggi il Lake District è tappa negli itinerari di viaggio e patrimonio Unesco.
Tutto questo ha un risvolto sociale, e politico. Lo stesso amore per il pittoresco che spinse al successo lo specchio Claude, portò a consolidare uno stile, un modo di acconciare prati e giardini: lo scopo era appunto riprodurre una situazione di natura un po’ sotto controllo dell’uomo e un po’ no, un paesaggio parzialmente antropizzato ma con alcuni lati selvaggi. È il giardino all’inglese: forme irregolari, finto disordine e piante che sembrano selvatiche. Il nazionalismo portò a rivendicare questo stile come la più pura espressione dell’animo inglese, in contrapposizione al giardino francese, geometrico e formale, apprezzabile soprattutto da un punto di vista centrale, e quindi dispotico. Spirito libertario britannico contro mentalità inquadrata continentale: forse non c’entra niente ma a me viene in mente quando Boris Johnson disse che il Coronavirus era più diffuso in UK perché gli inglesi sono amanti della libertà e poco inclini alle restrizioni autoritarie. Naturalmente era una sciocchezza, ma esemplificativa di un punto di vista ricorrente. Ma c’è di più.
Negli stessi anni, venivano emanate nel Regno una serie di leggi relative alle enclosures: i terreni demaniali venivano recintati, e questo favorì la concentrazione nelle mani di pochi latifondisti. Per l’agricoltura si trattò di un salto qualitativo, con l’applicazione di metodi e tecnologie più moderni ed efficienti. Per tanti piccoli coltivatori diretti, invece, fu una tragedia: tagliati fuori dalla loro vita consueta, migrarono verso le città, andando a costituire la massa di forza lavoro che rese possibile la rivoluzione industriale. Naturalmente non sto dicendo che fu tutta colpa dello specchio Claude, ma che entrambe le cose furono effetto degli stessi grandi mutamenti.
C’è poi anche un lato filosofico, se vogliamo. La nostra prima reazione, nei confronti degli specchi per contemplare il paesaggio è incredula, se non beffarda: ma come, si va a vedere un posto per voltargli le spalle? Ma anche all’epoca, quelli che usavano lo specchio furono oggetto di satira: “emblematico del loro atteggiamento verso la Natura, ritenere una tale posizione desiderabile”, commentò il poeta surrealista Hugh Sykes Davies. Fa ridere, come si dice, ma fa anche riflettere (ops). Perché noi oggi siamo abituati a pensare alla Natura incontaminata come buona, intrinsecamente positiva: naturale è sinonimo di non contraffatto, non artificiale, genuino; nel cibo come in tanti altri aspetti. Ma non è stato sempre così: anzi possiamo dire che non è stato così quasi mai. La storia delle culture umane – della cultura umana – è una storia di contrapposizione, di tentativi di dominio nei confronti della natura (e oggi ne paghiamo le conseguenze in termini ambientali).
Il selvaggio, il selvatico, il grezzo, hanno bisogno di essere modificati dall’intervento umano: con la cottura, nel caso dei cibi; con la lavorazione, nel caso dei materiali; con un filtro, nel caso dei paesaggi. Abbiamo sempre bisogno di una mediazione, di uno schermo, di una lente, da frapporre tra noi e una realtà che altrimenti sarebbe troppo potente? Nunc videmus per speculum, diceva l’Apostolo: come in uno specchio, appunto. E Huxley parlava di valvola di riduzione – una condizione del cervello umano che le sostanze psichedeliche possono un po’ allentare. Ah, un altro nome dello specchio Claude era specchio nero: Black mirror, come la serie distopica che illustra le conseguenze della tecnologia. Un male necessario?