L’assenza di artisti italiani fra gli invitati alla Shanghai Biennale e alla Triennale del New Museum paradigma delle difficoltà dell’arte contemporanea italiana
Quando un’attività si trova in difficoltà, cerca comprensibilmente tutti i modi per restare a galla. Prova a vivacchiare facendo finta di non vedere i problemi, si inventa piccoli diversivi per spostare l’attenzione dai problemi di fondo, nega pubblicamente uno stato di crisi sempre più evidente. Ma alla fine è costretta a dichiarare fallimento. Tante attività cessano di esistere, in qualche caso il passo è invece l’arrivo di un commissario straordinario. Qualcosa del genere sta accadendo da anni – sarà il caso di prenderne atto – a un’”attività” particolare come il sistema dell’arte contemporanea italiana.
Che questa crisi abbia radici nelle istituzioni è sotto gli occhi di tutti, comunque noi stessi di ArtsLife ne abbiamo colti segnali palesi nelle ultime settimane. Nel discorso di insediamento del premier Mario Draghi, nel quale la parola “cultura” – figurarsi l’arte contemporanea – è risuonata solo un paio di volte, associata ai giovani e all’impegno per migliorare scuola ed educazione. E solo in un passaggio si è ammiccato al valore del nostro patrimonio artistico, specificatamente alle città d’arte. E poi nell’audizione del Ministro della cultura, Dario Franceschini, davanti alle commissioni Cultura di Camera e Senato. Nel quale la parola “arte” non è risuonata mai. Nemmeno una volta. La parola “Musei”, una sola volta.
Teniamo a mente questa realtà, perché concorre con un ruolo decisivo alla costruzione di una situazione allarmante, soprattutto perché non affrontata strutturalmente. E perché in Italia manca proprio la figura, l’ente, l’istituzione che dovrebbe o potrebbe affrontarla strutturalmente (solo per esemplificare, qualcosa come l’inglese British Council?). Ma a creare queste condizioni di “inconsistenza” di un intero sistema concorrono tutti gli attori che faticosamente vi agiscono. Ormai caduti in un vortice depressivo dal quale è difficile riemergere, se non con azioni decise. Ma da cosa si misura l’inconsistenza di un sistema di uno Stato, rispetto a uno scenario globale? Evidentemente, dal raffronto rispetto ad altri sistemi.
Queste considerazioni giungono a galla per il combinarsi di due eventi a distanza di pochi giorni uno dall’altro. Ovvero due grandi eventi internazionali, come la Shanghai Biennale e la Triennale del newyorkese New Museum, che comunicano gli artisti partecipanti alle rispettive prossime edizioni. La casistica è ampia, e purtroppo per noi è omogenea ormai da molti anni, con rarissime eccezioni: fatto sta che in entrambi i casi non c’è uno – nemmeno uno! – artista italiano fra gli invitati. E parliamo di eventi decisamente ecumenici: la biennale cinese ospita creativi di 15 nazionalità diverse, quella americana addirittura di 21 provenienze distinte.
Sono due casi? Sì, ma ripetiamo, arrivano dopo anni che si ripete le stessa situazione. Che del resto è decisamente chiara a chi segua le dinamiche del contemporaneo. Se si eccettua qualche clamorosa sortita di Maurizio Cattelan, o qualche altro singolo personaggio che ormai è molto relativo definire “italiano” (Monica Bonvicini, Paola Pivi, Piero Golia, Alessandro Pessoli), possiamo realmente dire che gli artisti italiani riescono a incidere sul panorama internazionale? Qualcuno dirà: chissenefrega, noi viviamo prevalentemente qui, e ci creiamo e ci viviamo il nostro scenario. Anche perché – e questa è una verità – non è che specialmente oggi il panorama internazionale offra grandissimi esempi da seguire, o ai quali affiancarsi.
Ma così si negherebbe uno dei caratteri vitali dell’espressione artistica, ovvero quello della libertà, della contaminazione culturale e del confronto costruttivo. E si offrirebbe – come purtroppo si offre – ai nostri artisti un terreno molto limitato nel quale cercare spazi di crescita. Anche economica. Quali sono le cause di questo stato di cose? Sono ovviamente molteplici, e difficili da “coordinare”. A monte ci sono le citate carenze istituzionali: basti pensare – è sempre un esempio – che pressoché solo in Italia il curatore del padiglione nazionale alla Biennale di Venezia viene scelto dal ministro in prima persona. Ministro che del resto sceglie in prima persona i direttori dei principali musei, dopo una prima quasi soltanto farsesca selezione da parte di una commissione ovviamente “prestigiosa”. Ma decide il ministro. Può essere questo un sistema virtuoso?
Ma le responsabilità ricadono inevitabilmente anche sugli operatori attivi sul campo. Critici d’arte, opinion makers, direttori di eventi, direttori di musei e centri d’arte. Ci rendiamo conto che qui il discorso si fa complesso, e speriamo che questo articolo possa stimolare un dibattito nel quale magari affrontare nello specifico le carenze congenite del sistema. Fra le quali è inconfutabile riscontrare un certo provincialismo. Alla Biennale di Venezia, che assumiamo a riferimento in quanto resta oggettivamente l’evento più importante a livello mondiale, è raro trovare artisti italiani fra gli invitati nella mostra internazionale. Vige quasi una ritrosia, un mettersi al riparo da eventuali accuse di “partigianeria”.
Qualcuno obbietterà: ma i direttori della Biennale sono quasi sempre stranieri. Ok, ma vogliamo forse pensare che le scelte di fondo non siano condivise con gli organi istituzionali? Cautele simili non si riscontrano nei due eventi citati sopra. Che evidentemente non temono accuse di provincialismo, e non si fanno problemi ad offrire una vetrina importante ad artisti “di casa”. I numeri? Nella Biennale di Shanghai gli artisti cinesi presenti sono 10 su un totale di 64, nella Triennale del New Museum sono statunitensi 10 sui 40 prescelti.
Accennavamo all’inizio che spesso le attività in crisi vengono commissariate. Paradossalmente, non sarebbe forse il caso di pensare a un “commissario” per l’arte contemporanea italiana? Ops, forse occorrerà dire “un* commissari*”, nel rispetto delle impellenti questioni di genere. Giusto per fare qualche nome diretto, il profilo perfetto potrebbe essere quello di una signora che già oggi è fra le più attive nel nostro autoreferenziale sistema. Ovvero Patrizia Sandretto Re Rebaudengo.
Le credenziali nel le mancano di certo, se è vero che nel suo curriculum si legge che “è membro dell’International Council del MoMA di New York, dell’International Council della Tate Gallery di Londra. Del Leadership Council del New Museum di New York, dell’Advisory Committee for Modern and Contemporary Art del Philadelphia Museum of Art. Del Conseil d’Administration de l’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts de Lyon, del Comitato di Art Basel Cities. E del CCS Board of Governors del Bard College di New York, dell’Advisory Committee del Rockbund Art Museum di Shanghai”. Anche New York a Shanghai, inesorabilmente “Italy free”…
https://www.shanghaibiennale.org
https://www.newmuseum.org/