Beauty is one of the mainlines to make people feel something. It’s the sharpest tool in the box. If you’re trying to make people feel something, if you’re able to make it beautiful, then they’ll sit up and listen.” (Richard Mosse, dalla sua intervista al Frieze Magazine)
La Fondazione MAST di Bologna presenta Displaced, la prima mostra antologica del fotografo irlandese Richard Mosse, grande artista in grado di sovvertire le convenzioni, vedere oltre l’ordinario e osservare l’invisibile. Curata dal preparato Urs Stahel, la mostra – aperta fino al 19 settembre – presenta un’ampia selezione dell’opera di Mosse: un’esplorazione tra la fotografia documentaria e l’arte contemporanea con focus su Migrazioni, Conflitti e Cambiamento Climatico.
In mostra sono esposte ben 77 fotografie di grande formato inclusi i lavori più recenti della serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana. Oltre a queste straordinarie immagini, l’esposizione propone anche due monumentali videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e Incoming (2017), un grande videowall a 16 canali Grid (Moria) e il video Quick.
Richard Mosse crede fermamente nella potenza intrinseca dell’immagine, ma di regola rinuncia a scattare le classiche immagini iconiche legate a un evento. Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione. Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe. L’artista vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra.” (Urs Stahel)
La mostra si sviluppa su tre spazi della Fondazione MAST: Gallery, Foyer e Livello 0.
Gallery
La Gallery ospita alcuni dei primi lavori scattati in luoghi segnati da conflitti – Medio Oriente, Europa Orientale, confine tra Messico e Stati Uniti, e Infra, la serie che ha reso celebre l’artista, con immagini prodotte durante le brutali guerre nella Repubblica Democratica del Congo attraverso l’uso di Kodak Aerochrome, pellicola a infrarossi fuori produzione, ma usata per la ricognizione militare.
Fin dal principio della sua ricerca, l’artista lavora sul tema della visibilità, sul modo in cui siamo abituati a vedere, pensare e intendere la realtà. Le situazioni critiche e i luoghi di conflitto sono fotografati e filmati con l’utilizzo di tecnologie di derivazione militare, che stravolgono totalmente la rappresentazione fotografica, creando immagini che colpiscono per estetica, ma che al contempo suscitano una riflessione etica. Attraverso la bellezza, che l’artista definisce “lo strumento più affilato per far provare qualcosa alle persone”, mira all’essenza. Dai primi lavori scattati in Bosnia, Kosovo, nella Striscia di Gaza, lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti caratterizzati dall’assenza quasi totale di figure umane, che documentano le zone di guerra dopo gli eventi, si passa alla serie Infra ambientata in Congo utilizzando Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi, messa a punto per identificare i bersagli mimetizzati.
“La gente è cosi offesa dal colore rosa… è solo un colore. Onestamente quanto è più costruita una fotografia rosa rispetto a una fotografia in bianco e nero? Robert Capa usava il bianco e nero, ma noi non vediamo in bianco e nero. Eppure ci sembra più vicino alla verità. In sostanza, si tratta di utilizzare veramente le potenzialità dell’arte contemporanea, la capacità di rendere visibile ciò che è oltre il limite del linguaggio e di portarlo al limite etico e del documentario.” (Richard Mosse)
La pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione – rendendo visibile l’invisibile – con il risultato che la lussureggiante foresta pluviale congolese viene trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso. Il materiale scelto da Mosse registra dunque uno spettro invisibile di luce infrarossa trasformando i toni naturali del verde e marrone tipici delle zone di guerra nei colori psichedelici del rosa, rosso, fucsia e cremisi. Oltre a provocare reazioni emotive e ansia negli spettatori, i fotogrammi di Mosse deludono intenzionalmente le normali aspettative legate ai film documentari e alle fotografie. Sono infatti scatti di paesaggi maestosi, scene con ribelli, civili e militari, capanne in cui la popolazione in fuga trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili: tutti ritratti con crudo ed estremo realismo. Dal 1998 questi scontri hanno provocato la morte di oltre 5,4 milioni di persone. Mosse ha spiegato di aver cercato un nuovo modo di rappresentare la violenza per interessare il lettore a una guerra ignorata e facilmente dimenticata. Il suo lavoro reinterpreta la fotografia di guerra ed è il risultato della combinazione tra arte ed documentario. Il suo intento è di sfruttare “le potenzialità dell’arte nel rappresentare storie così dolorose e difficili da esprimere con il solo linguaggio, e la capacità della fotografia di documentare le tragedie e di raccontarle al mondo”.
Mosse dunque utilizza la bellezza per descrivere le brutture della vita e far provare qualcosa di autentico alle persone, non semplice fotografia patinata. La dicotomia tra le diverse variazioni di rosa sullo sfondo e la straziante realtà della guerra civile crea una strabiliante e inusuale convivenza tra etica ed estetica, rendendo visibile l’invisibile. Niente Photoshop finalizzato ai big likes: solo nuda e cruda realtà condita da inusuali colori paesaggistici. Ed è proprio questa prerogativa a renderlo così originale.
Nella città di Nyabiando, nella provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo, c’era un posto chiamato la roccia magica. La roccia magica non aveva niente di particolare, non era preziosa né eccezionalmente grande, solo poche persone alla volta potevano salirvi sopra. Se ci passi accanto oggi non ti accorgi nemmeno della sua presenza. Ma per molti anni la gente di Nyabiando ha affermato che questa roccia avesse poteri speciali perché era l’unico posto in un raggio di molti chilometri dove, se puntavi il tuo telefono cellulare verso il cielo e aspettavi pazientemente, potevi ricevere il segnale. […] La guerra erode la fiducia, e così la comunità si restringe e se ne intacca l’identità. Nasci cittadino del Congo, uno dei più grandi paesi dell’Africa, parte della comunità delle nazioni, ricchissimo di risorse naturali e umane: duecentocinquanta lingue e altrettanti fiumi; innumerevoli tradizioni musicali quanti sono i minerali nel terreno. Poi scoppia la guerra e diventi un congolese dell’est. Ma i combattimenti si avvicinano e vieni ridotto al tuo gruppo linguistico, poi al gruppo tribale, poi al villaggio. Presto ti sembra di poterti fidare soltanto della tua famiglia. Oggi nel Congo orientale si contano più di cento gruppi armati, molto piccoli, che pretendono di rappresentare e proteggere qualunque gruppo di persone si senta abbandonato. Le loro sfide non sono completamente ignorate dal mondo esterno – storie e fotografie ogni tanto appaiono ancora sui media – ma la comunità internazionale è arrivata ad accettare la violenza endemica nel Congo orientale come uno stato di normalità. Si calcola che alla fine del 2020, 4,2 milioni di persone nell’est e nel nord-est del Congo siano sfollate dalle loro case, più che in qualsiasi altro momento della storia del conflitto. Ciononostante, l’ONU ha cominciato a ridurre la missione di peacekeeping, sollecitato in questo dal governo congolese ansioso di allontanare gli sguardi stranieri dall’operato del suo esercito, che sistematicamente abusa dei diritti umani. Ma la gente del Congo orientale continua a resistere. Convive con la violenza, lavora e si innamora, fa musica e cresce i bambini. Il servizio di telefonia mobile è ora più affidabile in tutta la regione, così la roccia vicina al campo di calcio a Nyabiando ha perso un po’ della sua magia. Ma gli elicotteri continuano ad atterrare e i ribelli, i soldati, non cessano di imperversare sulle colline non lontano dalla città. Le notizie di attacchi e atrocità si diffondono rapidamente attraverso i social media. E anche le notizie della vita normale. Persone che tendono le braccia al cielo, sperando in una connessione con il mondo e sperando che il mondo non si disconnetta da loro.” (Michael J. Kavanagh, inviato di guerra nel Congo Orientale)
Foyer
Nel Foyer è in mostra la serie Heat Maps e le più recenti Ultra e Tristes Tropiques. In aggiunta, i 16 schermi del video Grid(Moria).
Heat Maps presenta le immagini realizzate lungo le rotte migratorie da Medio Oriente e Africa verso l’Europa con una termocamera per usi militari. Qui Mosse si è concentrato sulla migrazione di massa e sulle tensioni causate dalla dicotomia tra apertura e chiusura dei confini, tra compassione/rifiuto e cultura dell’accoglienza. Sono immagini straordinarie dei campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal in Libano, Nizip in Turchia, Tempelhof a Berlino e molti altri: qui Mosse impiega una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi. Si tratta di una tecnica militare che consente di visualizzare esseri umani fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte. Le immagini sono apparentemente nitide, precise e ricche di contrasto. A un esame più attento non si riescono a distinguere i dettagli, ma solo astrazioni: persone e oggetti sono riconoscibili solo come tipologie, nei loro movimenti o nei contorni, ma non nella loro individualità e unicità, dando così un imprinting ancora più universale alle problematiche esposte.
Inusuale il videowall dell’installazione Grid (Moria), che rivela i particolari della vita nel campo profughi sull’isola greca di Lesbo, noto per le sue pessime condizioni. Le riprese sono state effettuate con termografia a infrarosso e l’opera è costituita da 16 schermi che propongono lo stesso spezzone a diversi intervalli.
Ultra offre invece con i suoi scatti una prospettiva inaspettata sulla bellezza della natura della foresta amazzonica. Tra il 2018 e il 2019 Mosse comincia a esplorare la foresta pluviale sudamericana dove per la prima volta concentra l’obiettivo sul macro e sul micro, spostando l’interesse di ricerca dai conflitti umani alle immagini della natura. In Ultra – tramite la tecnica della fluorescenza UV – Mosse scandaglia il sottobosco, i licheni, i muschi, le orchidee, le piante carnivore e, alterando lo spettro cromatico, trasforma questi primi piani in uno spettacolo pirotecnico di colori fluorescenti e scintillanti. La biodiversità viene descritta minuziosamente tra proliferazione e parassitismo, tra voracità e convivenza, per mostrarci la ricchezza che rischiamo di perdere a causa dei cambiamenti climatici e per mano dell’uomo.
La foresta pluviale è un terreno di caccia popolato di prede e cacciatori; il mondo naturale è dominato dal ciclo perpetuo che presuppone di uccidere per non essere ucciso. ‘Ultra’ analizza le strategie di sopravvivenza che le piante e gli insetti hanno sviluppato nel corso di milioni di anni, tra cui la mimetizzazione. I fiori di orchidea, al contrario, si sono evoluti per adattarsi alla perfezione alla forma del corpo delle api delle orchidee, un esempio che illustra nel migliore dei modi le interdipendenze dell’ecosistema.”(Galleria Carlier Gebauer)
Tristes Tropiques – la serie più recente di Mosse – racconta il diverso lato della medaglia, ovvero l’impatto della deforestazione nell’area brasiliana tramite immagini scattate da droni su una pellicola multispettrale, una sofisticata tecnologia fotografica satellitare, documentando la distruzione dell’ecosistema. Mosse ha scattato queste fotografie di denuncia lungo il Pantanal, il fronte di deforestazione di massa nell’Amazzonia brasiliana. Ogni mappa mostra i delitti ambientali perpetrati su vasta scala, diventando per il fotografo un archivio che li documenta.
Livello 0
Al Livello 0 trovano spazio la videoinstallazione The Enclave (40′), girata con pellicola Infrared Aerochrome e la videoproiezione Incoming (52′) ripresa con termocamera militare – entrambe frutto della collaborazione fra l’artista, il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore Ben Frost – e il video Quick (13′), approfondimento sul percorso artistico di Mosse.
Con la superba opera in sei parti The Enclave – progetto gemello di Infra (presente nella Gallery) – realizzata per il Padiglione Irlandese della Biennale di Venezia del 2013, Mosse svela il contrasto tra la magnifica natura della foresta della Repubblica Democratica del Congo e la violenza dei soldati dell’esercito e dei ribelli.
Il conflitto in Congo è come un palinsesto di guerre diverse, tribali, territoriali, nazionali e internazionali, che si susseguono e si sovrappongono secondo dinamiche oscure e insolite. [Con The Enclave] ho provato a mettere insieme due cose diversissime – la pellicola a infrarossi usata per la sorveglianza militare e la sofferenza del Congo – per creare una sorta di cortocircuito. Per me aveva un senso metaforico. Questa guerra è una tragedia nascosta, e in questo senso è invisibile. Rendere questo conflitto visibile agli occhi della gente comune è l’anima del progetto.” (Richard Mosse, riguardo alla sua esposizione più discussa, ‘The Enclave’)
Il sopracitato Quick del 2010 completa infine la mostra: è un filmato girato da Mosse che ricostruisce la genesi della sua ricerca e della sua pratica artistica attraverso i temi a lui cari come la circolazione del virus Ebola, la quarantena e l’isolamento, i conflitti e le migrazioni, muovendosi tra la Malesia e il Congo orientale.
[…] And often if you make something that’s derived from human suffering or war, if you represent that with beauty (and sometimes it is beautiful) that creates an ethical problem in the viewer’s mind. Then they can be confused and angry and disoriented, and this is great, because you’ve got them to actually think about the act of perception, and how this imagery is produced and consumed.” (Richard Mosse, dalla sua intervista al Frieze Magazine)
Richard Mosse, ‘Displaced’
Fino al 19 settembre 2021
Ingresso gratuito su prenotazione
Da martedì a domenica, ore 10-20
Fondazione MAST informa i gentili visitatori che desiderano vedere le videoinstallazioni nella loro interezza (The Enclave, Incoming, Quick al Livello 0), che sono previste giornate con slot dedicati:
— 18, 20 maggio – slot delle ore 12.00
— 3, 10, 17, 24 giugno – slot delle ore 17.00
Il catalogo che accompagna la mostra propone tutte le immagini esposte oltre a un saggio critico del curatore della mostra Urs Stahel e testimonianze di Michel J. Kavanagh, Christian Viveros-Fauné e Ivo Quaranta. Il volume, edito dalla Fondazione MAST, è distribuito da Corraini ed è disponibile in libreria e online su www.mast.org e www.corraini.com.