Venezia diventa HYPERVENEZIA nella mostra che Palazzo Grassi allestisce dal 5 settembre 2021 al 9 gennaio 2021. Oggetto dell’esposizione l’immenso corpus fotografico che Mario Peliti ha realizzato sulla città lagunare.
Parallela, vuota, atemporale. Priva di luce, priva di persone, priva di colore, priva persino (almeno nella maggior parte dei casi) anche dei canali che tanto la contraddistinguono. Priva di vita, insomma. É una Venezia che esiste e non esiste quella che Palazzo Grassi espone, dal 5 settembre 2021 al 9 gennaio 2021, nella sua nuova mostra fotografica: HYPERVENEZIA. Il suffisso Hyper è la chiave per accedere a un mondo parallelo, separato da quello che conosciamo, simile ma diverso, sconvolto da lievi anomalie che mano a mano diventano così preponderanti da portarci a dubitare della bontà stessa della realtà che vorrebbe raccontare.
Difatti sono tanti gli aspetti che lasciano sospettare che la Venezia ritratta da Mario Peliti sia la stessa città che da sempre conosciamo. In primo luogo c’è l’ossessione da cui deriva. La mostra è frutto di un folle progetto iniziato dall’artista – che preferisce essere definito autore, dal momento che solitamente di professione è gallerista – nel 2006, quando ha iniziato a mappare sistematicamente Venezia con le sue fotografie. L’obiettivo è di raccogliere il più ampio e organico archivio di immagini della città. A che punto siamo? 12.000 scatti. Non male, anche se per considerarsi sufficiente il numero dovrà almeno raddoppiare. Il termine di questa ricognizione fotografica è infatti previsto per il 2030. Un’iniziativa radicale, nata per pura e irrazionale passione. Inevitabile allora che anche la selezione realizzata dal curatore Matthieu Humery dovesse rispecchiare parte di questa pazza impresa.
La soluzione scelta tripartisce dunque l’immenso materiale a disposizione, sulle cui caratteristiche tecniche avremo modo di ritornare in seguito. Ecco quindi come è suddiviso il percorso immersivo allestito al primo piano di Palazzo Grassi: un percorso lineare di circa 400 fotografie che ripercorrono un ideale itinerario per i sestieri di Venezia; una mappa site-specific della città composta da un mosaico di circa 900 immagini geolocalizzate che offrono una panoramica della città; un’installazione video di oltre 3.000 fotografie che scorrono accompagnate da una composizione musicale inedita realizzata per la mostra dal noto musicista e compositore Nicolas Godin, membro del duo di musica elettronica “Air”.
L’idea è quella di approfondire le prospettive attraverso cui esplorare la città, ma anche di frammentare la sua unitarietà, di infrangere la compattezza che la rende reale e trasportarla nel reame della rappresentazione. Qui risiede il groviglio più concettuale dell’esposizione. Nonostante le immagini sembrino aderire in maniera fedele alla realtà che rappresentano, d’altra parte è lampante, se non travolgente, come riescano ad estrarne la dimensione più onirica e straniante. Allo stesso modo di una composizione surrealista o ancora meglio un paesaggio metafisico. Come nelle opere di De Chirico, anche nelle fotografie di Peliti sono sprovviste di narrazioni, non ci sono personaggi, ma solo l’evidenza più fattuale.
Essa però assume caratteri poetici proprio a causa del paradosso su cui si fonda: la città privata dei suoi attributi – gli abitanti, i colori, la vita – rimane ancora una città? A rigore di logica si, anzi, dovrebbe finalmente manifestarsi nella sua essenza. Eppure così non è: Venezia ci appare spettrale, rigida, vuota, angosciante. Pare un’anti-Venezia speculare a quella che conosciamo, un rovescio della normalità. Un’alterità che non risiede in una trascendenza, ma all’interno della stessa. Così possiamo risolvere la dualità tra realtà e rappresentazione: non si tratta di elementi distinti, ma di componenti che si incastrano fino a confondersi.
Per ottenere questo effetto, Peliti sceglie di ritrarre Venezia in modo sistematico e preciso, sempre nello stesso momento della giornata (l’alba) e con le stesse condizioni metereologiche (cielo coperto). Questo fa sì che qualsiasi effetto di spettacolarizzazione venga annullato, dissolto in una luce piatta e onesta. Il silenzio è tangibile, dilagante. Lo sguardo del fotografo è omogeneo, pulito, indaga le evidenze architettoniche e urbanistiche nella loro eloquenza più diretta. La città pare addormentata in un purgatorio ammantato di cenere pallida, polvere mistica che interrompe il tempo e restituisce Venezia al quella dimensione misteriosa e impossibile che più di ogni altra le appartiene.