Approfondiamo una delle migliori gallerie viste quest’anno a Mia, Milano Image Art Fair 2021. Diverse ed eterogenee le proposta di Paola Sosio Arte Contemporanea. Da Giulia Marchi a Patrizia Mussa, da Arnaldo Dal Bosco a Danilo Mauro Malatesta, vediamo il booth di questa edizione
Giacomo Giannini – Isle of view
Con il progetto “Isle of View” Giannini osserva il mondo da una posizione privilegiata, a bordo di un elicottero insegue le pennellate cromatiche, le macchie, le ferite, le contraddizioni dei segni che l’uomo traccia sulla terra. Conduce chi osserva in una realtà inaspettata, fa volare e trattenere il fiato per la bellezza dei colori e dei paesaggi e fa riflettere sulle fragilità del pianeta e dell’uomo, sul rispetto per se stessi e per ciò che ci circonda.
Nella scrittura di queste immagini emerge sempreun senso pittorico, una ricerca di armonia della composizione e del bello, una sorta di equilibrio spontaneo nella relazione tra natura e segni artificiali.
In occasione della X edizione di MIA Fair 2021, per la prima voltavengonopresentate alcune immagini del progetto“Isle o view”, VINTAGE, opere uniche realizzate nel 1987.
Arnaldo Dal Bosco – In Magine
InMagine (2015-2020) è un progetto off-camera che deriva dalle modificazioni provocate dall’autore sulle emulsioni chimiche fotosensibili delle pellicole, mediante elementi naturali quali umidità e muffe. In un secondo momento l’artista interviene manualmente e “dipinge” sulle diapositive utilizzando i pigmenti della diapositive alterate. I film vengono successivamente digitalizzati ad altissima risoluzione per la realizzazione di stampe fine art.
Danilo Mauro Malatesta – De SecundaPietate2019-2021
“De SecundaPietate” vuole essere nelle intenzioni dell’artista una carezza di luce sull’amore e sul dolore. In un teatrale rovesciamento del rapporto iconografico, Cristo risorge e porta in grembo l’intera umanità incarnata da Maria. Svincolata dal tempo, ma fedele alla sua impronta, la Fotografia dà corpo a una visione ideale: l’autore decostruisce una delle icone più potenti della cultura occidentale attribuendole un senso nuovo. Un Cristo umano e possente, la cui fisionomia è lontana dall’iconografia classica, trattiene fra le braccia una Madre giovane. Per Lei il tempo si è cristallizzato nel momento in cui ha oltrepassato il punto di non ritorno della maternità.
TricliniumPauperum2021
Fu un gesto rivoluzionario quello di Papa Gregorio che accoglieva alla fine del IV sec. nell’oratorio di Santa Barbara al Celio, ogni giorno, dodici poveri per sfamarli.In un reiterato atto di carità, quale manifestazione concreta dell’amore, apparecchiava loro questa lastra di marmo, trasformandola nella prima mensa dei poveri della storia e dando un senso concreto alla parola “accoglienza”.
Non dava loro solo del cibo, ma anche un posto dignitoso dove consumarlo, perché se è vero che si può nascere più o menopoveri o ricchi, a nord o sud del mondo, è altrettanto vero che la dignità ci viene data da Dio.
Danilo Malatesta ha replicato questa liturgia, facendo ritrovare attorno al “tricliniumpauperum”, dodici persone, prese dal popolo, come soleva fare Caravaggio e come papa Gregorio stesso. Dodici come gli apostoli, in rappresentanza di tutta l’umanità. Il destino è comune, ciò che su questa tavola accade all’uno capita anche all’altro. I dodici attori attendono a mani vuote; ciascuno ha nel cuore un bisogno che urge e si fa sentire chiaramente, ma quale esso sia non è dato sapere.
Upside down2020
Roma. Nei giorni del lockdown Malatesta si trova di fronte ad infiniti spazi cittadini deserti, privi del vissuto da automi a cui di solito fanno da sfondo. Decide così di girare per la sua città dall’inizio di Marzo del 2020 fino al 4 Maggio con la mascherina, il pass da giornalista e il thermos del caffè del 1974. Da solo. Sistema i suoi manichini inermi, guardando a De Chirico e alle sue Piazze metafisiche, si sdraia per terra e trova un modo per raccontare il vuoto della città, per ritirarla come tutti vorrebbero dimenticarla. Sessanta giorni. Durante i quali siamo stati tutti mutilati, i nostri sensi resi inutili dalla vita in quarantena, le nostre abilità accantonate, i nostri orpelli gettati via.
Proprio come quei manichini.
Patrizia Mussa – Photopastel
Testo di Nicola Davide Angerame
La serie intitolata “Photopastel” di Patrizia Mussa, pur essendo fotografia, ci porta oltre la fotografia. Sotto l’azione della sua mano pittorica, attraverso un trattamento eseguito con pastelli e acquerelli, le fotografie si emancipano dalla loro natura meccanica e diventano corpi ibridi la cui essenza impercettibile si pone sul limite di quella soglia che separa, come vuole Walter Benjamin, l’opera provvista di una propria aura dall’opera meccanizzata e potenzialmente ripetibile identica all’infinito.
Ogni singolo scatto i Mussa diventa una domanda posta al nostro occhio, un enigma linguistico che anche una volta svelato (vi può indicare dove ha operato con il colore e con la mano) non perde quella sua particolare auraticità. Potere della pittura, forza dis-oggettivante di una fotografia che non si raccoglie su se stessa ma va oltre, in cerca di un rapporto proficuo con la pittura. Nella loro assoluta unicità, ogni fotografia viene prima stampata nelle modalità più consone ad esaltare le qualità della singola immagine quindi viene dipinta in modo quasi impercettibile ma significativo al fine di trasformare la fotografia di una realtà data in una visione sottilmente onirica, umilmente grandiosa e capace di esaltare con forza straniante la verità di luoghi che sono come oasi dell’immaginario collettivo della nostra civiltà e che giungono a noi, intatti o meno, per contribuire alla costituzione del nostro DNA culturale.
Per raccontarli, Patrizia Mussa usa un linguaggio fotografico che appare ad un primo sguardo di matrice oggettivante e caratterizzato da luce naturale, visione frontale, messa a fuoco totale, attenzione per il particolare, presenza di dettagli, tutto compreso dentro una “narrazione” calibrata, razionale, cristallina, onnisciente, onnipervasiva, onnivora, ma anche armonica, serafica, chiara, luminosa e netta. Tutto questo vale però esclusivamente per la fotografia che sottende l’immagine finale e che fa da supporto ad uno slancio di visione atto a recuperare il senso di una unicità che sembrava destinata a perire sotto i colpi inferti dal mezzo di riproduzione meccanica dell’opera d’arte. La fotografa è dunque la base (volendo, già autonoma) su cui Mussa costruisce una visione che è guidata e vuole esaltare ulteriormente la plasticità del luogo. Se la fotografia scopre una data realtà, l’intervento pittorico la rilegge e la riscopre attraverso un’operazione di nobile “maquillage” che, richiamando le pratiche all’anilina dell’epoca del bianco e nero, trasforma l’opera in un’autentica immagine mentale, una proiezione idealizzante e idealizzata di quello che potrebbe e dovrebbe essere il luogo “teatro”. Un luogo che per millenni ha accolto la rappresentazione non soltanto del mondo umano ma anche di quello divino. Le storie che in esso si sono consumate e perpetrate per generazioni hanno innervato di ideali e miti il nostro sistema nervoso condiviso, alimentando un rituale di “rispecchiamento” che, insieme a quello religioso, rappresenta forse il Leitmotiv di una storia ripetuta nella diversa sedimentazione delle epoche. A questi corpi pieni di storie passate e in attesa di storie a venire, Mussa dedica una serie fotografica che va oltre ogni idea di “serie” e di “fotografia”. Sono in realtà ritratti unici e personali di luoghi affrontati come se fossero volti di persone ricche di un’anima, dotate di una psicologia sfaccettata e di una storia di vita che sta a noi, partendo dalle opere di Patrizia Mussa, riscoprire, ristudiare e far rivivere.
Giulia Marchi – Lalangue
Lalangueè la lingua primitiva dell’essere umano, quella depositata nell’inconscio e che precedel’alfabeto grammaticale.
Il punto di partenza del lavoro di Giulia Marchi è appunto il concetto lacaniano.
La forma che l’artista ha scelto per sviluppare il progetto, rimanda a strutture primitive, minimali, ed èrealizzata mediante l’utilizzo di saponi veri, lavorati e modellati a mano direttamente dall’artista.
I saponi presenti nelle immagini sono realizzati anchein porcellana biscuit,e rispondono fedelmente a misure e colori dei saponi fotografati.
Marco Rigamonti – Presepi e dintorni
Il tempo del Natale
In alcune zone della campagna che circonda la mia città e in alcune aree della Pianura Padana è viva l’usanza, nel periodo natalizio, di esporre il presepe davanti alla propria abitazione, fattoria, azienda, lungo le strade, agli angoli delle vie. Spesso i presepi, normalmente di piccole dimensioni, si trovano su strade secondarie con scarsissime indicazioni per raggiungerli. Una mappa messa a disposizione dall’organizzazione può servire allo scopo ma spesso … ci si perde lo stesso. Non ci sono premi, raccolta di offerte, ecc. solo il desiderio di offrire ai visitatori il frutto della proprio creatività, una sorta di land art sparsa per le campagne.
Luciano Romano – Lo sguardo obliquo
Le scale sono la perfetta metafora dell’azione umana: trasformare la natura e costruire il mondo a propria immagine, sfidare la legge di gravità partendo dall’opacità della pietra per mirare alla luminosità del cielo.
Soglie del divenire, dell’ascesa, del progresso; costruzioni nate per il collegamento funzionale tra i diversi piani diventano il tramite simbolico tra i diversi livelli della coscienza.
Disegnate ricorrendo a complesse geometrie, ispirate alle forme fantastiche della natura, le scale conservano un rapporto intimo e diretto con il nostro corpo che le attraversa e le misura col proprio passo.