Al Museo Maxxi fino al 13 febbraio Amazônia di Sebastião Salgado, 200 opere, in esclusiva italiana, che fotografano una visione ecologica integrale della fusione uomo natura e la necessità di preservarla.
Venerdì 2 ottobre ha inaugurato al Maxxi l’ultima fatica del grande fotografo Sebastião Salgado, intitolata Amazônia, che rimarrà a disposizione del pubblico fino a febbraio 2022. Definirla mostra è riduttivo, si tratta di un vero e proprio manifesto, estetico, ma soprattutto politico, come ha sottolineato Giovanna Melandri nella presentazione.
Un intervento su e per l’Amazonia, la più grande foresta pluviale del pianeta che si estende principalmente nel Nord Ovest del Brasile, una terra che rappresenta la maggiore riserva di CO2 e la più ricca concentrazione di biodiversità al mondo e che per questo è da considerarsi un bene di tutti, un bene comune da preservare e difendere. Una regione del Brasile,oggi minacciata da speculazione e deforestazione, che il presidente del paese Bolsonaro ha scientemente deciso di ignorare e non rappresentare alla prossima conferenza delle Nazioni Unite sul ClimateChange che si terrà a Glasgow a fine ottobre, il cosiddetto Cop 26, in cui il Brasile si presenta con una delegazione in cui non figura nessun indigeno. Fatto scandaloso di cui si è ampiamente parlato durante la presentazione della mostra e per cui lo stesso Salgado ha chiesto anche a noi italiani, a suo parere i più ambientalisti tra i popoli europei, di intervenire perché i nativi dell’Amazzonia siano rappresentati. In un modo o nell’altro, come sta facendo lui stesso chiedendo ai vari politici, tra gli altri anche a Macron, di includerli nella propria delegazione.
Amazôniaesposta al Maxxi è da vedere dunque come una mostra-manifesto, un grido d’allarme collettivo, un’opera corale che non appartiene solo al Salgado fotografo, ma è dei Salgado, perché la curatela della moglie LéliaDeluizWanick (di origine italiana come ricorda Sebastião), da 50 anni al suo fianco, è parte integrante del dire profondo che questa esposizione fotografica si propone.
Il lavoro per Amazôniaè durato 6 anni ed è, a sua volta, un anello della lunga catena che fa dell’opera di Salgado, una visione chiara e lucida, un racconto, una profezia di profonda e rara coerenza.
Salgado nasce in Brasile nel 1944 , studia economia e statistica, viene in Europa e si mette a lavorare per l’Organizzazione Mondiale del Caffè. Viaggia l’Africa, vede sulla pelle delle persone l’inequità degli squilibri storici ed economici. Sperimenta quella che Papa Francesco nel Laudato Sì definisce come “l’ingiustizia del debito tra il Nord e il Sud del mondo”. La macchina fotografica, la prima è una Pentax comprata dalla moglie Leila, diventa la sua compagna silenziosa, ma in grado di elaborare immagini che sanno anche urlare. “Io scrivo con la macchinina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita” dichiarerà in una intervista.
Nel 1972 lascia il lavoro per l’Organizzazione Mondiale del Caffè e si mette a fotografare in giro per il mondo. Non è un fotoreporter, non è un fotografo sociale, è un umanista che sta in mezzo alla gente con profonda, commossa empatia. Come lui stesso racconta, non è il momento dell’azione che vuole cogliere, ma il ricostruirsi o il disfarsi di un equilibrio dopo di essa. Le sue composizioni fotografiche, che abbiano al centro i minatori infangati alla ricerca della mitica ElDorado o i bambini denutriti del Sahel, hanno sempre un che di mitologico, partecipano di una epopea in cui i deboli e i fragili diventano eroi contemporanei. Passando per le migliori agenzie fotografiche del mondo: Sygma, Gamma e Magnum, Salgado fotografa da un lato all’altro del pianeta la resistenza dell’umanità, che lui stesso definisce come “ilsale della terra”, nell’omonimo film dedicatogli da Wim Wenders.
Tanta tensione, tanto dolore da testimoniare, lo ammalano. E’ così che dopo la terribile esperienza del genocidio del Ruanda, SebastianoSalgado negli anni ‘90 molla tutto e torna alle origini, in Brasile, alla ricerca di quel verde Eden, da cui era partito. Sennonché l’hybris umana, la volontà di potere, l’altra faccia di quella medaglia chiamata uomo, è arrivata anche lì, devastando e impoverendo le terre che ricordava lussureggianti. E’in questo preciso frangente che il progetto fotografico di SebastiãoSalgado comincia ad assumere una completezza e un profondo spessore politico, che ne travalica lo stesso valore artistico. Il fotografo da testimone diventa attore, inventando un modello virtuoso. I coniugi Salgado ripartono dalla finca di famiglia, situata nella valle del fiume Doce, nel profondo della foresta atlantica, ormai completamente disboscatadall’industria mineraria e pazientemente cominciano a ricostruire quello che altri hanno distrutto. Costruire significa riforestare, piantare alberi secondo un processo lungo e faticoso. Come Salgado stesso ci racconta alla presentazione di Amazôniaal Maxxi, prima vengono piantati gli alberi pionieri e i secondari per creare uno spazio stabilizzato, poi finalmente gli alberi che resteranno lì un millennio. L’apice del progetto. Quelli che gli sopravviveranno. Nascono dunque L’Istituto Terra una fondazione privata, ma protetta dallo stato, che in 30 anni ha piantato 3 milioni di alberi e Amazonia Images. Da allora ogni foto, pubblicazione e mostra, entra organicamente a far parte di questa grande visione, come un ramo con l’albero.
Così è anche per l’attuale esposizione Amazôniaal Maxxi. Anni di lavoro nella foresta, raggiungendone parti inaccessibili, tribù incontattate, per fotografare l’Eden nella sua primigenia purezza e i popoli che lo abitano. Il fotografo seleziona una troupe di studiosi, ricercatori, intermediari con le tribù ( lo stesso figlio di Salgado ha scelto questa come missione), sceglie un’attrezzatura il più leggera possibile: da anni è passato al digitale, proprio perché nulla deve distoglierlo dall’obiettivo finale, che è testimoniare, raccontare. Solo un telone neutro avvolto nella tela cerata per fotografare gli indigeni senza alcuna prosopopea naturalistica ad interferire. Basta l’essenziale che loro stessi selezionano per rappresentarsi agli occhi dello spettatore: chi il proprio animale, chi le armi, si presentano adornati, dipinti. Sono ritratti sociali. Occupano il cuore della mostra, che Leila Salgado ha deciso di organizzare come una vera e propria esperienza di viaggio, in cui gli stimoli a vedere, sentire, scoprire si accavallano simultanei, in un percorso di ombre e luci improvvise, molto emozionante. Le foto che raccontano la natura dell’Amazzonia sono ai lati del cammino, sospese a mezz’aria, spesso di grandi dimensioni, in quel bianco e nero dorato che è una cifra dello stile Salgado, delle sue fotografie fuse come bassorilievi inca.
Sottolineate dal commento musicale di Michel Jarre, che mixa i suoni della jungla, le immagini sono disposte per nuclei tematici: le montagne, le isole nel fiume, il folto della foresta. Al centro invece la curatrice ha raccolto delle stanze che riprendono la forma poligonale e il colore rosso fango delle abitazioni tradizionali degli indigeni. Ognuna di loro racconta, è il caso di dirlo perchè le legende scritte sono molto esaurienti, una tribù, le sua storia, le sue specificità, alle foto di Sebastiãoè affidato il compito di restituire la profonda dignità dei loro volti, del loro quotidiano e rispettoso dialogo con la natura in cui vivono immersi.
Un Eden di una bellezza stordente come lo definisce durante la presentazione Padre Enzo Fortunato, giornalista e direttore della sala stampa del Sacro convento di Assisi, che allaccia un filo ideale tra il progetto Salgado, di cui l’esposizione Amazôniafa parte e la visione ecologica integrale che Papa Francesco ha esposto nell’enciclica LaudatoSì. Entrambi mettono al centro della propria riflessione la profonda interconnessione tra l’uomo e la terra a cui appartiene. Le foto dell’Amazzonia di Salgado che si stagliano nella penombra, queste immagini possenti di una natura possente che ci precede e ci sopravvive, diventano il simbolo, quasi futuristico nella loro digitalizzazione, della nostra stessa via di fuga per preservare il pianeta terra.