Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. (Pier Paolo Pasolini)
Pochi mesi fa è uscito l’ultimo libro di Matteo Bergamini, L’involuzione del pensiero libero (Postmedia Books). Un agile volumetto sagace. Un pamphlet. Un grido d’allarme, una constatazione validissima. L’arte contemporanea sembra aver messo da parte i temi universali dell’esistenza e della spiritualità, ma anche quelli di una oggettiva critica sociale, e della ricerca di verità. L’arte, nel 2020, ha seguito i passi del giornalismo mainstream, associandosi a movimenti politici e ponendosi come propaganda visiva, auto-annullando la sua capacità di poiesis, di creazione poetica, di sguardo dell’altrove. Come, allora, poter ricostruire pensiero, poesia e, allo stesso tempo, un’attitudine libera alla vita e al mondo nell’epoca della paura e di una nuova censura in nome di un “pensiero giusto” che è – antidemocraticamente – anche l’unico che viene offerto dalle bocche dei media sempre più agguerriti? Dall’esperienza del giornalismo come pratica della critica, dalla letteratura al cinema alle arti visive, il libro indaga una serie di opere e di voci, divise per tematiche e brevi capitoli, che hanno tentato di resocontare il proprio presente in maniera lucida, allontanandosi dai rumori della comunicazione. Attraverso le ultime eredità del ‘900 e degli anni 2000 si riscoprono una serie di personalità, episodi culturali e “metodologie” per poter ripensare ad un’arte contemporanea che – per poter sopravvivere oggi – non può che farsi reazionaria di fronte al perenne stato di una rivoluzione che si configura invece, all’atto pratico, come una involuzione del libero pensiero. La copertina è disegnata dall’artista Andrea Di Cesare.
Punto primo. Qual è lo stato di salute del giornalismo d’arte in questi tempi pandemici? Macro differenze, se ci sono, rispetto al pre-pandemia o solo l’esasperazione patologica dei “problemi” già in essere?
Penso che la storia della pandemia non abbia fatto altro che accelerare i tempi della caduta delle maschere, nel giornalismo come nella vita. Non doveva essere più come prima, e invece – riporto sempre la frase di Michel Houellebecq, l’unica degna di nota nell’esasperante rumore di fondo che ci accompagna ormai da quasi due anni – è invece non solo è rimasto tutto uguale, ma è tutto ben peggiorato. Il giornalismo in generale, perché tanto quello dell’arte segue il mainstream a ruota, non ha dimostrato altro di essere un portavoce di quello che ormai abbiamo allo sfinimento definito “pensiero unico”, quello che impone senza prendersi la responsabilità dell’obbligare, quello che non ha alcuna evidenza scientifica eppure bisogna seguire i protocolli. Quello che, nel nostro campo, non paga i contributi, permette di lavorare gratuitamente, ci dice che siamo in guerra senza sapere che i soldati di ventura non erano volontari… Potrei andare avanti ore, ma sarebbe piuttosto inutile, e tutti abbiamo capito a cosa mi sto riferendo.
A che serve allora, ti chiedi giustamente, questo giornalismo d’arte… Risposta? Quanta inficia la scarsità eterna di risorse da investire nel nostro campo e il totale conflitto d’interesse del giornalista nel sistema arte?
Esattamente quello che dicevo poco fa: che peso puoi dare a un “professionista” che non viene retribuito? Quanto vale il suo lavoro? Non vale. Non vale perché cade l’assioma su cui si regge il mondo del lavoro ma che, in certe categorie magicamente è annullato: denaro-lavoro. Chissà come mai, magicamente, in alcune aree subentra la regola opposta. E poi, che peso può avere un “articolo”, o una recensione, scritta su commissione? Se il primo finanziatore del tuo giornale vende armi potrai andare a fare le pulci sulla sua guerra? A cosa serve, quando anziché prendere una posizione, informare, criticare, ripensare, ti limiti a “riportare”?
Il giornalismo d’arte, l’ultimo ingranaggio del sistema, situato nel punto più basso e sinistro della piramide della comunicazione ovviamente ha dovuto seguire il carro, perché ai vertici c’è pur sempre il mondo internazionale con le sue “holding culturali”, i capitali intellettuali in senso monetario, sostenuti dalle forze chiave del Globalismo. Così se l’arte di scrivere, inteso nel senso giornalistico di comporre vere notizie, è stata messa a tacere, la colpa della scomparsa dell’arte, se ci fosse un processo sommario alle intenzioni, sarebbe da ricercare nella velocità, nel mito del progresso che forgia l’uomo nuovo: una brevità di impulsi a scomparsa immediata ha saturato le nostre esistenze e la creazione, la prima disciplina dell’esistenza che riflette “a guisa di similitudine, metaforizzazione e risoluzione al concetto di figura – il modo in cui la scienza e la cultura dell’epoca vedono la realtà”, come scriveva Umberto Eco in Opera Aperta, sembra essere stata sopraffatta proprio da se stessa. L’arte, velocizzata e accecata dal “tutto esposto” e affogata nella “liquidità”, viene osservata e raccontata passivamente, lontana dal trovare coraggio e forza per de-costruire o mettere in discussione la realtà. Il giornalismo, che ha prestato per tanto tempo il fianco alla critica d’arte, sarebbe oggi quindi l’ultima speranza di raccontare qualche verità, mentre cambia il modo di raccontare le opere.
_ Matteo Bergamini
L’involuzione del pensiero libero. Dove stiamo finendo?
Questo non lo so, e sono molto curioso di scoprirlo. Per capire anche dove andrà a finire il mio, di pensiero.
Perbenismo, appiattimento e politicamente corretto. Come siamo messi nel mondo arte? Sia in Italia che all’estero…
Penso ai nostri bisnonni che si erano visti rifiutare i quadri ai saloon ufficiali, che avevano disertato la guerra rifugiandosi in Svizzera creando il Dadaismo, che amavano la vita onirica o che erano “squadre” dove un artista era interdipendente dall’altro. L’arte, nella mia idea, è sempre stata la differenza, l’alterità, l’altro sguardo. Oggi vedo solo mancanza di metafore, soluzioni formali a dir poco creepy, come va tanto di moda dire, anziché usare la nostra bellissima parola raccapricciante, appiattimento su bandiere politiche che mimano l’idea di dissenso mentre tutt’intorno si uccidono i veri diritti dei cittadini, quello alla libertà in primis.
“L’arte è soporifera come una notizia bollita”. Quante e quali similitudini tra i due campi…? “Il vero medium incendiario è la pittura”, quale il mezzo e la modalità vitale per il giornalismo e la scrittura in generale (hai degli esempi, di modalità, di riviste, di figure…?)
Ho scritto che il vero medium incendiario è la pittura proprio perché quando saranno bruciati questi inutili fuochi di paglia, quando anziché continuare a vedere il dito si vedrà finalmente la luna, bisognerà re-imparare a fare poesia, a occuparci di questioni che abbiano un senso nella vita, e non di essere gli ultimi spadaccini a salire sul carro delle cronachette. La pittura proprio per il suo essere antimoderna è, per quanto mi riguarda, uno dei mezzi che sopravviveranno sempre a questi riflussi del tempo. Detto questo, però, non voglio nemmeno essere frainteso: non è che tutta la pittura diventi automaticamente arte, anzi.
Consigli, indicazioni, ispirazioni di figure, giornalisti, artisti, autori (morti o vivi) da seguire e da leggere.
Mah, sai… quelli che consiglierei in qualche modo li ho messi nel libro. Ognuno, poi, trova quello che cerca realmente. Ecco, se dovessi dare un consiglio in generale, direi di seguire le ombre. Magari ogni tanto ci si becca qualche spina, ma ancora penso sia meglio che restare accecati dal trionfo delle false verità.