Women in Abstraction si propone di aggiornare la storia dell’arte attraverso i contributi sommersi delle donne all’Astrattismo. Un processo doveroso che ci porta alla scoperta di artiste tanto brave quanto sconosciute. Dal 22 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022 al Guggenheim Museum di Bilbao.
Se vi chiedessi di portare alla mente il volto di Picasso, ci riuscireste? Scommetto di sì. E quello di Jackson Pollock? Forse sarebbe più difficile, ma il suo sguardo concentrato mentre lascia scivolare il colore sulla tela l’avrete di certo visto almeno una volta. Ma se invece vi chiedessi del viso di Dora Maar? O quello di Lee Krasner? La questione si fa più complessa. Eppure, oltre che compagne dei due pittori sopracitati, erano anch’esse artiste. Ma del resto la storiografia di settore ha spesso ignorato le donne, celando i loro volti e sussurrando a malapena i loro nomi. Non c’è poi da stupirsi: solamente negli ultimi decenni la società si sta impegnando per lavarsi dal fango di secoli di maschilismo e patriarcato. Di certo non è colpa dei critici d’arte (che, a dirla tutta, sono comunque perlopiù di genere maschile), ma di un sistema ingiusto nei suoi presupposti. E che necessita quindi di essere rivoluzionato. Per questo colpisce la parete coperta da 112 volti di artiste che apre la mostra Women in Abstraction, di cui sono protagoniste, allestita nelle sale del Guggeheim Museum di Bilbao.
Simpatico paradosso, non trovate? Dei ritratti – fotografici, che più figurativi non si può – come introduzione a una mostra sull’astrattismo. Un bagliore di realtà prima di perdersi nelle cromie nebulose dell’informe. L’operazione è necessaria per rimuovere il manto d’invisibilità con cui la storia dell’arte ha coperto queste artiste. Una dichiarazione decisa e perentoria di presenza, di rivendicazione identitaria; ancora più intensa perché accompagnata dall’inevitabile nostalgia di non aver avuto, in vita, il riconoscimento meritato. Riscatto di genere a cui si accompagna il riscatto dell’astrattismo stesso, spesso inteso come espressione artistica inferiore al figurativismo. Vuoi perché frammentato in varie declinazioni – Futurismo, Cubismo, Suprematismo, Neoplasticismo, ecc – vuoi perché meno immediato, più complesso nel suo rivolgersi all’invisibile. Difficilmente classificabile e interpretativamente scomodo, l’astrattismo pare perfetta chiave di lettura per scardinare la storiografia classica e trovare una chiave di lettura differente, femminile, dell’arte.
Anche perché fin da subito la ricerca rivela sorprese. Come Georgiana Houghton (1814-1884). Artista pressoché sconosciuta, ma segretamente fondamentale. Guidata da una vocazione spiritualistica, Houghton realizza tra il 1860 e 1870 una serie di opere astratte, senza avere però la terminologia per definirle tale. Difatti la nascita del genere risale al 1910, anno in cui Kandinskij realizzò il suo celebre acquerello. Eppure sul foglio Houghton riporta cromie informi, delineate tramite segni, capovolgimenti grafici, filamenti arzigogolati che saturano la superficie. A queste si sovrappongono linee bianche, tracce candide che si infittiscono al crescere del sentimento spirituale che Houghton percepiva durante la realizzazione. Le sue opere sono varchi per l’invisibile, ponti tra mondi, connessioni aperte tra la realtà materiale e quella spirituale. Rapporti dettagliatamente raccontati dalla stessa Houghton, che sul retro dei suoi acquerelli scriveva le modalità tramite cui l’inspirazione trascendentale le era giunta. Spesso a sussurrarle tali impalpabili suggerimenti erano artisti del passato quali Tiepolo, Tiziano e Correggio; artisti a cui Houghton rivolge i suoi ringraziamenti.
E poi tante, tantissime sale gremite di opere femmineo-astratte capaci di ripercorre le principali istanze artistiche tra il XIX e XX secolo. Un compendio che raccoglie la pittura, certo, ma anche la danza, l’arte decorativa, la scultura, la fotografia e i film. Tutto in una prospettiva capace di superare i confini occidentali per abbracciare America Latina, Medio Oriente, Asia e Africa.
Alla danza è dedicato uno dei primi capitoli, con l’artista francese Valentine de Saint-Point (autrice nel 1912 del manifesto della donna futurista) e la performance di Loie Fuller. L’Avanguardia Russa, recentemente in mostra a Palazzo Reale di Milano, è rappresentata da tre dipinti di Natalia Gongharova, dalle Composizioni Non-Oggettive di Olga Rozanova e dalla natura morta costruttivista di Alexandra Exter. L’energia della scena parigina negli anni Cinquanta è rappresentata dalle sculture in pietra dell’artista libanese Saloua Raouda Choucair, dall’artista cubano-americano Carmen Herrera e dalla turca Fahrelnissa Zeid. Il tributo al Bauhaus è incentrato su Gertrud Arndt e il suo tappeto, espressione massima del branca textile dell’astrattismo.
Tornando alla pittura, tante le artiste di prima fascia. Sonia Delaunay-Terk spicca con la sua interpretazione della Transiberiana di Blaise Cendrars. Una trasposizione visiva – impasto regolato di geometria e colore – del testo poetico dello scrittore francese. E ancora Back Mountain #16 di Elaine Fried De Kooning, fino alle macchie di colore di Cool Summer di Helen Frankenthaler e allo splendido Méphisto di Joan Mitchell. Opere che nulla hanno da invidiare a quelle dei colleghi uomini. Tanto che, Lee Krasner, se l’è proprio sentito dire. “Questo dipinto è così buono che non diresti mai sia fatto da una donna“. Frase sessista che nel 1940 voleva essere un complimento del suo maestro di pittura Hans Hofmann. E pensare che le sue opere vivono di un’autonomia totale, ingiustamente oscurata da quelle del più celebre marito Pollock. Pur similari, gli stili dei coniugi differiscono a monte. Se Pollock lasciava colare il colore sulla tela affidandosi al caos, Krasner operava un lungo e preciso processo di distribuzione del colore e dei segni.
Ben nutrita la contingenza italiana. Da Giannina Censi, interprete solitaria dell’aerodanza futurista negli anni Trenta, alla scultrice, anch’essa futurista, Regina Casolo Bracchi, di cui è esposta la Struttura (1954) di ferro e plexiglas. Di Dadamaino è esposto Oggetto ottico-dinamico (1962), foglio di alluminio su nylon dagli effetti ottici circolari. Celebri i rotoli multicolori di Sicofoil di Carla Accardi, esponente dell’avanguardia astratta romana del dopoguerra. E infine, l’opera Bianco+Viola del 1963 della veneziana Bice Lazzari, dove combina la leggerezza del segno alla spessa consistenza del colore applicato sulla tela con una spatola di metallo.
Nel complesso, Women in Abstraction solleva diverse questioni che intersecano arte e società. Prima di tutto viene presentato il vasto spettro dell’astrattismo, sempre più interpretato come metodo piuttosto che come stile o genere. E insieme le modalità tramite cui esso, come tanti altre istanze artistiche, si sia evoluto in modo non lineare, non progressivo, ma incline a strappi e ripensamenti, a rapide intuizioni e lunghe pause. Da qui alla riflessione sul procedere storiografico, inevitabilmente categorizzante fino al rischio di precipitare nel semplicistico. E infine le considerazioni sul ruolo della donna, nell’arte e nella società. Per secoli relegate con solido figurativismo ai margini del sistema, ora finalmente libere di risorgere dalla trascendenza dell’astratto fino a farsi concreta e meravigliosa realtà.