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Cercare la beatitudine nascosta dentro l’inquietudine. Beati gli inquieti di Stefano Redaelli, intervista

Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management della Cultura e dei Beni Artistici” di Rcs Academy”, tenuto tra dicembre 2021 e gennaio 2022 da Luca Zuccala, vicedirettore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.

Stefano Redaelli è professore di letteratura italiana presso la facoltà di “Arti Liberali” dell’Università di Varsavia. A febbraio 2021 ha pubblicato per Neo Edizioni Beati gli inquieti. Il romanzo, già classificato secondo al “Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2019”, nasce a seguito di numerosi anni di studio sul rapporto tra letteratura e follia e della frequentazione di una struttura per pazienti psichiatrici. Abbiamo incontrato l’autore, di seguito l’intervista che gentilmente ha rilasciato per la nostra rivista ArtsLife.

Nel libro non c’è pietismo, non c’è neppure paura e, come ha detto Eugenio Borgna, Beati gli inquieti tratta la follia e i matti con grandissimo rispetto. Date queste premesse, chi sono i destinatari ideali del libro?

Le parole di Borgna sono state per me molto importanti, in quanto hanno messo in luce il rispetto verso la follia e i matti. Borgna è uno dei più grandi psichiatri viventi, uno dei massimi esponenti della psichiatria fenomenologica e uno dei punti di riferimento nelle mie ricerche. Per questo avere il suo apprezzamento è stato particolarmente importante, ma in realtà questo romanzo, che parla di follia, non è indirizzato ai folli soltanto. Al contrario, è un libro in cui attraverso la follia si vuole arrivare a parlare della normalità, nel senso dell’umanità, di ciò che ci caratterizza in quanto esseri umani. Ancora, attraverso la malattia si vuole parlare della sanità. Beati gli inquieti è quindi un libro in cui si cerca la beatitudine nascosta dentro l’inquietudine, l’inquietudine a volte anche del disagio mentale. È la sanità a volte che è nascosta dentro la malattia.

Nella dedica sul libro mi hai scritto “con l’augurio di ascoltare sempre le proprie inquietudini”. Potremmo dire che questo augurio sia un augurio da fare alla società intera, nella speranza di una nuova consapevolezza collettiva che le grandi o piccole inquietudini e follie personali possano essere un nostro punto di forza?

Sì, questo sicuramente è un augurio che farei a tutti, che faccio a me stesso, che ho sempre cercato di seguire: l’ascolto delle proprie inquietudini. Cos’è l’inquietudine? Uno stato non direi tanto di insoddisfazione, ma di instabilità. Qualcosa di diverso da quello in cui ci troviamo e verso il quale ci sentiamo spinti. Ci inquieta, ci spaventa perché ci chiama e ci costringe a lasciare le sicurezze, magari anche sicurezze tristi, ma comunque sicurezze. Ascoltare la propria inquietudine vuol dire ascoltare anche quelle voci che ci sembrano impossibili, folli, che però magari ci dicono ciò di cui abbiamo più bisogno a livello personale, professionale ed emotivo. Questo è un augurio ad essere onesti con se stessi, ad ascoltare le inquietudini, altrui soprattutto. Il dolore degli altri, anche il balbettio di chi non riesce a dire la propria inquietudine, ma se trova un ascolto opportuno può riuscire a pronunciarla, scoprendo che questa inquietudine magari nasconde una beatitudine, cioè qualcosa di cui lui ha bisogno. A volte la malattia, la follia è anche questa grande metafora di ascoltare le voci che ci sembrano irragionevoli, e magari dicono le cose più giuste.

Per quale motivo ci sono alcuni capitoli in cui il narratore cambia e passa da Antonio a Marta? E addirittura, com’è nata l’idea, verso la fine del romanzo, di uscire dalla narrazione tradizionale in prosa, andando verso una commistione di generi quali la poesia e la sceneggiatura teatrale?

Innanzitutto, perché Marta? Beati gli inquieti è fatto di voci. È un romanzo in prima persona, però polifonico, perché il narratore Antonio dà voce ai personaggi che abitano nella Casa delle farfalle, pazienti psichiatrici che si rappresentano soprattutto attraverso la loro voce. Tra questi c’è Marta, che ad un certo punto si stacca dalle altre voci e si prende la prima persona, poiché non più contenibile e contenuta dentro la voce di Antonio. Perché questo è accaduto non saprei. Il personaggio ha richiesto questa autonomia. È una voce forse più importante sotto certi punti di vista ed è una voce femminile – questo anche è importante – che si mette in dialogo poetico e affettivo con Antonio. Proprio perché è un romanzo polifonico, a tratti era impossibile raccontare tutto dentro la prosa tradizionale in prima persona. Ogni tanto ci sono appunto questi sfaldamenti, come la prima persona di Marta, le pagine di poesie di Marta e di Cecilia e addirittura c’è il teatro. Perché? Perché queste voci diventano sempre più indipendenti, non stanno dentro il racconto canonico. In particolare, con le pagine in cui si scrive di fatto una pièce teatrale si riproduce quell’esperienza che ho fatto molte volte quando andavo a trovare i pazienti di una struttura psichiatrica, che poi sono diventati gli amici che hanno ispirato questo romanzo. Mi capitava di esser circondato da questi pazienti, questi amici, che parlavano tutti contemporaneamente. Ero come circondato da una nuvola elettronica di voci, di persone che parlavano contemporaneamente. Volevo riprodurre nel romanzo anche questa situazione e mi sembrava che la pièce teatrale fosse la forma più adeguata.

L’italiano presenta varie parole per descrivere chi ha un disturbo psichiatrico, come “matto”, “folle”, “pazzo”, “internato”, tutti con accezioni diverse, spesso dispregiative, oserei dire mai neutre. Nel libro compaiono per lo più “matto” e “folle”. Quanto è stata articolata la scelta di queste parole durante la stesura del romanzo?

Sicuramente è stata ragionata la scelta delle parole. Tutti i sinonimi in italiano hanno sfumature diverse. Mentre “folle” dal latino follis vuol dire “mantice”, “soffietto”, “pallone pieno d’aria” ed esprime l’aspetto della leggerezza, della creatività, della follia; “pazzo” al contrario deriva da patior “soffro” e da pathos (greco)“sofferenza”, “infermità” e ci dice della parte dolente della malattia, anche di sofferenza e violenza. La pazzia spesso viene associata a questo binomio malattia-pericolosità. La malattia mentale ci fa paura perché la associamo al pericolo della violenza o al dolore della sofferenza. Queste due immagini prevalenti nell’immaginario collettivo – espresso anche nei media – ci impediscono di vedere oltre, divedere anche quella leggerezza, purezza e autenticità che c’è a volte nella voce della follia. Io parlo anche della beatitudine in Beati gli inquieti, beatitudine nel senso di una purezza, di una umanità, di una incapacità di venire a patti con il mondo quando il mondo è folle, quando il mondo è malato, quando il mondo è disumano. Per questo si usa soprattutto “folle”. “Matto” è un’espressione più bonaria, deriva da mattus, che vuol dire “ubriaco”. Fondamentalmente nel romanzo si parla del “folle” e non del “pazzo”, nonostante nel romanzo non prevalga assolutamente un tono romantico o favolistico: si parla di dolore, sofferenza e malattia in modo diretto, ma si vuole andare oltre, verso quella parte più umana della follia, che è anche creatività. In Beati gli inquieti è molto sviluppato sia l’aspetto creativo della malattia e dei folli, sia l’aspetto leggero della follia, nel senso di essere staccati dalle cose del mondo e quindi più vicini a una certa trascendenza, una spiritualità. Nel romanzo è infatti molto presente anche una dimensione religiosa.

Stefano Redaelli
Della follia si parla poco, anche se negli ultimi anni sembra ci sia stata una ventata di libri che hanno cercato di rendere questo argomento meno tabù per la società. Cosa ne pensi di questa affermazione, anche in riferimento alle vicende editoriali di Beati gli inquieti?

Sì, questo è un fenomeno molto interessante e molto positivo secondo me. Il fatto che negli ultimi sei anni si siano pubblicati più di 20 o 25 narrazioni del disagio mentale indica che si sta parlando molto di disagio mentale, si sta facendo parlare la follia e questo è importante, perché, come diceva Basaglia, la voce della follia è sempre stata una voce confusa con la voce della miseria o della pericolosità, una voce mai ascoltata, messa a tacere, nascosta nei manicomi. Ascoltarla vuol dire ascoltare noi stessi, un aspetto della vita della società, la quale contiene in sé la ragionevolezza così come la follia, la sanità così come la malattia. L’interesse editoriale per il racconto del disagio mentale va messo in relazione con lo sviluppo delle medical humanities e della medicina narrativa, che negli ultimi dieci anni in Italia ha subito una grandissima accelerazione. La medicina scopre di aver bisogno della letteratura, del racconto della malattia (illness narratives) per capire meglio la malattia dalla prospettiva del paziente. Inoltre, il racconto può essere utilizzato anche come una delle componenti della cura.

Beati gli inquieti si inserisce in questa bella tendenza, pur essendo stato scritto e preparato molti anni prima: era già pronto nel 2017. Gli echi del romanzo sono molti positivi, sia nel mondo psichiatrico –a partire appunto dalla recensione di Eugenio Borgna – come nel mondo letterario sulla stampa nazionale. Questo mi fa molto piacere non solo come autore, ma perché si dà credito finalmente alla follia e si cerca di guardarla e ascoltarla, superando la paura e cercando di cogliere una beatitudine nascosta nell’inquietudine.

 

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