Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management della Cultura e dei Beni Artistici” di Rcs Academy”, tenuto tra dicembre 2021 e gennaio 2022 da Luca Zuccala, vicedirettore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.
Il regista e drammaturgo emiliano, fondatore del Teatro delle Albe, torna sugli schermi con una pellicola sugli ultimi giorni di vita di Dante Alighieri.
Tutto pronto per il debutto nelle sale ravennati di Fedeli d’amore, ultima prova cinematografica del regista e drammaturgo Marco Martinelli (classe 1956), tra i fondatori della storica compagnia Teatro delle Albe. Dopo la prima assoluta al concorso milanese Filmaker Festival, lo scorso 18 ottobre, la pellicola è prossima alla proiezione a Ravenna, la città che nel tempo è diventata quartier generale diffuso del Teatro. Con il lungometraggio -che segue prove come Er, Vita agli arresti di Aung San Su Kyi e The Sky Over Kybera– Martinelli torna dietro la macchina da presa con l’inedito proposito di confezionare un abito cinematografico a una già fortunata produzione per il palcoscenico. Fedeli d’amore, infatti, nasce nel 2018 come “invenzione” teatrale attorno agli ultimi giorni di vita di Dante Alighieri, personaggio al centro delle ricerche drammaturgiche meno ortodosse del regista reggiano: tra 2017 e 2019 Martinelli è alla guida di più di settecento cittadini ravennati nella “messa in vita” (così definita dal regista) di Inferno e Purgatorio (rimandata causa pandemia la realizzazione di Paradiso).
Un Polittico in sette quadri per Dante Alighieri. Sullo schermo, come già in scena, a raccontare gli estremi della vita del Sommo Poeta sono sette personaggi impensati, cui è riservato lo spazio di altrettanti “quadri”, spazi narrativi conchiusi e limitati di quello che si rivela essere un polittico unitario. Apre la narrazione la nebbia che invade la pianura ravennate nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, e che assiste al dimenarsi del poeta in preda ai deliri della febbre malarica; la visione infernale del demone che punisce i guerrafondai, “mercanti di morte”, anticipa il racconto dell’asino che ha trasportato Dante nel suo ultimo viaggio.
Prendono poi la parola altre due visioni figlie della Commedia: il piccolo diavolo del “rabbuffo”, colui che scatena le liti per denaro, e la “serva Italia”, che narra le sue contraddizioni insanabili in un cortocircuito tra il Trecento e il presente. La composizione in sette quadri si chiude su frequenze diverse: i toni commoventi di Antonia, la figlia di Dante e Gemma Donati dimenticata dai circuiti narrativi ufficiali, riporta il focus della narrazione sul “primo motore immobile” dell’intera opera, amore; lo stesso amore protagonista dell’ultimo quadro, “una fine che non è una fine”, nel quale il poeta finalmente morente è pervaso dal ricordo del primo incontro con l’amata Beatrice, all’età di nove anni.
A dare vita a questi quadri sono le acclamate doti di una maestra dell’uso della voce, Ermanna Montanari. La voce fuori campo dell’attrice romagnola permea la sala e anima ogni personaggio attraverso impasti linguistici complessi, che fanno convivere le lingue di oggi e quelle del Trecento. Gli accenti gutturali del dialetto romagnolo si accompagnano alle rime “aspre” di Inferno e sono complementari alle dolci note della lingua del Paradiso, in un gioco scopertamente linguistico tutto teso tra la violenza degli scarti stilistici e modulazioni di tonalità più tenui. Dialogano con la voce di Montanari le architetture musicali di Luigi Ceccarelli e la tromba di Simone Marzocchi.
Ma la natura del polittico non pervade solamente l’impianto fonico e acustico dell’operazione cinematografica. A teatro, la statica presenza sulla scena della figura di Montanari e del leggio, unico elemento scenografico fisico, è stravolta dalla macchina da presa manovrata da Martinelli, che dà una nuova vita al testo attraverso il ricorso ad un arsenale di inquadrature differenziato. Il regista si diverte a conferire a ogni quadro del polittico un sapore diverso, forte delle licenze artistiche concesse da un medium come quello cinematografico, non più legato al monolitico vincolo del palcoscenico. Le carrellate di primi piani -memore della lezione di Pasolini, Martinelli sembra interessato alla ricerca insistita sui volti- si alternano a soluzioni moderne, come nervosi piani sequenza e riprese aeree effettuate con droni, ampiamente utilizzate per cogliere in unico colpo d’occhio gli slums di Nairobi in The Sky Over Kybera.
Come un filo rosso che attraversa l’operazione nella sua interezza, “Amore” -sussurro di una nebbia che non può fare altro che guardare la sagoma morente di Dante, negazione degli inferni della guerra e della dittatura del soldo, poi inebriante guida dei poeti della cerchia giovanile del Sommo (i “Fedeli d’amore”, appunto) e ultimo approdo nelle visioni finali del poeta- è colto dalla molteplicità delle voci plasmate da Montanari e degli sguardi inventati da Martinelli. Una prova che ha saputo cementare ulteriormente il legame tra Dante e la città di Ravenna – le numerose comparse sono cittadini ravennati – proseguendo la fiorente stagione creativa che ha consacrato l’estremo rifugio del Sommo Poeta quale fulcro delle celebrazioni dell’anno dantesco. Fedeli d’amore è un’opera universale e allo stesso tempo tenacemente “romagnola”: in essa si condensano le radici ravennati dell’arte di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari e l’orizzonte universale della parola dantesca, che dalla specificità italiana abbraccia l’umanità nella sua interezza.