La monografica Jeff Koons. Shine dedicata all’estetica kitsch e scintillante dell’artista americano post-pop proposta da Palazzo Strozzi mette in scena, non senza diversi limiti, una serie di opere impattanti e suggestive. Mostra estremamente inclusiva e democratica: forse troppo?
Ai quasi due anni di difficoltà per i luoghi per la cultura, alle vacillanti incertezze per le grandi esposizioni temporanee, al timore di non saper riportare in museo il grande pubblico, Palazzo Strozzi ha risposto così: con una mostra dall’estetica così attraente e seducente da essere in grado di attirare il più vasto pubblico possibile. E quale scelta più efficace se non una monografica dedicata all’estetica kitsch e scintillante dell’americano Jeff Joons (York, 1955)? Calza a pennello il titolo della mostra Jeff Koons. Shine, la prima che esplora, all’interno della cornice rinascimentale di Palazzo Strozzi di Firenze, il tema della lucentezza indagata dall’artista. É infatti a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che Koons, per la realizzazione delle proprie opere, impiega materiali lucidi, luminosi e riflettenti, in grado di catturare l’occhio dello spettatore. Il termine “shine” deriva dal tedesco shein e significa “brillare”, ma al contempo anche “apparenza”: l’apparenza è qualcosa di diverso dalla realtà, “sembrare” non equivale a “essere”. Come sembra dichiarare in apertura, la mostra vuole idealmente essere una vera e propria riflessione filosofica sul dualismo tra essenza e apparenza: ma riesce nel suo intento?
Le opere esposte in apertura della mostra, SacredHeart (1994-2007) e Seated Ballerina (2020-2015), vogliono mostrare che l’arte di Koons si configura primariamente come esperienza sensoriale: l’utilizzo di questi materiali caratterizzati da una così impattante lucentezza sono in grado di suscitare sentimenti tanto istintivi nello spettatore da farlo sentire immediatamente attratto dalle opere senza una motivazione più profonda rispetto al puro appagamento estetico. Non è un caso che questa è la sala più affollata della mostra, che non può non strappare una lunga sosta dedicata a fotografie e selfie riflettenti.
La riflessione tra essenza e apparenza emerge nella seconda sezione, dedicata alla serie Luxury and degradation del 1986, nella quale l’artista americano ha realizzato un gruppo di sculture in acciaio inossidabile. Con queste opere il suo messaggio è forte e chiaro: inseguire immagini simbolo di ricchezza, che emulano la lucentezza e la preziosità materica dell’argento (luxury), conduce alla disperazione (degradation). Egli sceglie dunque un materiale industriale e non prezioso, “proletario”: l’acciaio. Ma non si ferma qui: nell’opera simbolo di questa serie, JimBeam-J. B. Turner Train, inserisce nelle carrozze del treno del bourbon, che veicola una riflessione metaforica sull’apparenza ingannevole delle cose. Così, con la loro estetica scintillante, le sue opere “comunicano potere ed evitano il degrado”. Almeno in apparenza.
Nelle successive sezioni emerge con forza la stretta connessione tra le opere di Koons e i riferimenti alla storia dell’arte dal passato: dalla Pop Art e il ready-made duchampiano per quanto riguarda il Novecento, sino all’arte rinascimentale, classica e persino preistorica.
Tanto le installazioni quanto le tele appartenenti alla serie Celebration (1994) non possono infatti non rimandare, per scelta di soggetti, forme e colori sgargianti, all’estetica pop degli anni Sessanta di Andy Warhol, di cui egli si incorona erede. Alta oltre tre metri, Balloon Dog è una delle immagini più iconiche della produzione degli anni Novanta di Koons, nonché una delle cinque versioni uniche di questo soggetto realizzato in cinque differenti colori; l’artista, lavorando in collaborazione con una fonderia specializzata, intendeva riprodurre in formato gigante un palloncino gonfiato a una festa con la forma di un cane. Di questa serie anche la scimmia di un blu luccicante che si staglia con vigore nel cortile nel palazzo quattrocentesco di Benedetto da Maiano, creando un suggestivo dialogo tra antico e contemporaneo (è tradizione di Palazzo Strozzi inserire un’opera nel cortile per far assaporare allo spettatore ciò che si gusterà nelle sale espositive). È assente tuttavia, nei pannelli esplicativi, una spiegazione esaustiva e illuminante sulla poetica che si cela dietro all’idea di questa serie, rischiando in questo modo di far risultare le opere quasi un’accozzaglia di oggetti scintillanti, ma vuoti di significato. Bastavano forse le parole di Jeff Koons stesso a riempire gli oggetti di un contenuto filosofico: “Siamo palloncini. Se fai un respiro e inspiri, è ottimismo. Espiri, ed è una specie di simbolo di morte”.
L’oggetto maggiormente legato alla lucentezza e all’apparenza delle cose è lo specchio, a cui Koons dedica una serie di opere a partire dal 1977. Pur senza tralasciare la lezione duchampiana, è evidente in queste opere il riferimento ai giochi riflettenti e quasi illusionistici delle sculture minimaliste di Robert Smithson, in cui la realtà delle cose, proprio in virtù dell’apparenza riflessa, risulta sfuggevole e ingannevole. Si tratta anche di una prima riflessione sul tema della compartecipazione dello spettatore, che si vede riflesso negli oggetti: un tema che tornerà come poetica centrale nella più recente produzione dell’artista. A questa serie appartiene una delle opere più celebri di Koons, One Ball Total Equilibrium Tank (Serie Spalding Dr. JK 241), realizzata nel 1985, in cui l’artista usa la riflettività dell’acqua all’interno di una teca di vetro per evidenziare lo stato di un pallone da basket che sembra privo di peso corporeo e sospeso in un limbo metafisico; si tratta di un’opera complessa che non può non catturare l’attenzione e la curiosità dello spettatore, che resta qui forse parzialmente insoddisfatto dalla mancanza di una delucidazione.
Uno degli aspetti più interessanti dell’opera di Koons è l’originale crossover tra la cultura alta della storia dell’arte e la cultura popolare legata al consumismo di massa. È a partire dal 2002, in particolar modo nella serie Popeye, che l’artista sceglie di tornare alla formula del ready-made del grande maestro Marcel Duchamp, utilizzando però gonfiabili da piscina: egli opta per oggetti noti della cultura popolare (come Hulk) e per immagini iconiche nella storia dell’arte (Lobster è un esplicito riferimento al Surrealismo di Salvador Dalì), facendo un uso straordinario e suggestivo dei materiali metallici colorati che emulano alla perfezione le superfici degli oggetti gonfiabili in plastica.
Gazing Ball Sculptures (2013-2014) eGazing Ball Paintings (2014-2021) portano alle estreme conseguenze tanto il tema dello specchio quanto la volontà di far dialogare l’opera e lo spettatore con un nuovo grado di compartecipazione artistica. Le sfere blu riflettenti inserite all’interno di opere scultoree dell’antichità classica oppure di dipinti del Rinascimento modificano l’opera d’arte includendo un nuovo spazio visivo costituito sia dall’ambiente circostante riflesso sia dalla presenza di chi osserva, che può compiere così uno straordinario, seppur effimero, viaggio nel tempo: “Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte”. L’operazione di Koons dà vita a un nuovo discorso artistico spogliando le opere d’arte preesistenti delle loro precedenti valenze estetiche e contenutistiche per attribuir loro un nuovo e inedito significato.
Le ultime due sezioni sono un vero e proprio inno alla fertilità. Bluebird Planter (2010-2016) e Metallic Venus(2010-2012), entrambe afferenti alla serie Antiquity, giocano sul contrasto tra la fioriera che ospitano, simbolo della celebrazione della vita organica, e l’artificialità delle loro stesse superfici riflettenti in acciaio inossidabile. La loro lucentezza e le loro tinte estremamente kitsch, che ricordano dei soprammobili di discutibile gusto degli anni Settanta, nascondono un messaggio quasi ecologico: il bisogno universale degli esseri viventi dell’elemento della luce, alla base della fertilità stessa. Appartenenti a questa stessa serie, anche due Veneri che fanno esplicito riferimento alle statuette preistoriche simbolo della fertilità femminile; tuttavia, il loro accostamento a una tela che strizza esplicitamente l’occhio alla tradizione pop di Warhol e di Mimmo Rotella, tanto nel soggetto (Superman) quanto nella tecnica artistica (collage), resta poco chiaro.
Non si può infine non notare un’ingombrantissima assenza nella curatela della mostra: il contesto storico in cui tali opere sono state prodotte. L’estetica kitsch e scintillante di Koons è indiscutibilmente figlia di quell’estetica kitsch e scintillante che tanto andava di moda negli anni Ottanta e da cui non si può prescindere nel tracciare una panoramica sulla produzione dell’artista.
Lungo il percorso attraverso le sale della mostra, non sorprende veder scorrazzare numerosi bambini divertiti dalla proposta ludica delle opere: in tal senso la mostra di Palazzo Strozzi si presenta come una mostra davvero inclusiva, estremamente democratica. L’intento è certamente spaziare quanto più possibile nel target di visitatori, compiendo anche un’operazione per nulla facile e di cui bisogna dar grande merito all’istituzione: aprire le porte dell’arte contemporanea al grande pubblico. Se però la mostra affascina il visitatore medio, non si configura invece come particolarmente innovativa dal punto di vista della ricerca scientifica (da segnalare tuttavia la presenza di importanti prestiti da prestigiose collezioni museali e private a livello internazionale).Forse i più curiosi, interessati ad approfondire maggiormente i significati delle opere, o gli esperti del settore resteranno un po’ delusi dai pannelli esplicativi. Apprezzabile è la scansione tematica e non cronologica delle opere dell’artista, in grado di creare un vero e proprio discorso fluido e (quasi sempre) coerente dalla prima all’ultima sala. L’allestimento è molto semplice e lascia spazio alla monumentalità delle opere, che risultano ben valorizzate all’interno degli spazi espositivi.
In sintesi: l’occhio rimane appagato dopo la visione di questa mostra? Assolutamente sì. Rimane qualcosa d’altro? Ben poco. Al termine di questa riflessione, il titolo si riconferma dunque calzante: shine, ovvero pura apparenza.
Jeff Koons. Shine
Firenze, Palazzo Strozzi
A cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro
2 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022