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Arabpop, lo scenario culturale contemporaneo del Medio Oriente nella nuova rivista

“Arabpop”, rivista semestrale edita da Tamu edizioni in libreria da settembre 2021

Raccontare alcune aree geografiche dal punto di vista culturale può essere un’impresa. Perché, per esempio, più che come aree geografiche entrano nelle nostre vite, al di là del Mediterraneo, come teatri di guerra. Perchè, per esempio, più che come aree geografiche entrano nelle nostre vite “senza cultura”. Simulacri di una Storia che ci ricorda, ancora, il nostro remoto passato.

“Arabpop”, rivista semestrale in libreria da settembre 2021, sfida questo automatismo e si prefigge esplicitamente di “raccontare i cambiamenti culturali inaugurati o semplicemente resi visibili dalle rivoluzioni arabe del 2011, seguendone le traiettorie e gli sviluppi futuri”. 

Che succede in quella porzione di mondo attraverso cui, specie in Europa del Sud, formuliamo i concetti di “guerre senza fine”, “scontri di civiltà”, “valore delle donne”, “radicalismo religioso”?

“Arabpop” ci parla proprio di questi luoghi, dei loro stati d’animo, del fermento della loro gente. La bellezza di quest’impresa è portare letteratura, arte, fotografia, della contemporaneità araba. Dall’arabo all’italiano. Il tratto distintivo della rivista, nelle parole di Silvia Moresi durante una delle presentazioni presso la libreria Zaum di Bari nel novembre scorso, è proprio di “far conoscere qui in Italia lo scenario culturale – prima che politico, geopolitico – dei paesi arabi, del Medio Oriente. Soprattutto: lo scenario culturale contemporaneo”. Perché anche i paesi arabi producono cambiamento, contestazione, negoziazione, creazione: cultura.

Gli/le/* intellettuali arabi/e/* non vogliono parlare solo di religione, guerra, fratture etniche nelle loro società. Vogliono essere interpellat* sulla crisi climatica, vogliono avere accesso ad un discorso pubblico, al di là di ciò che accade nella loro regione. Vogliono poter parlare di tutto. 

L’elemento particolarmente interessante e ambizioso di “Arabpop” è proprio l’intento di rendere popolari e conosciute nella loro malleabilità le primavere arabe. Sfidare l’unico registro che sembra potersene occupare – la geopolitica – per ridare dignità a quella micropolitica che pure ha dato slancio alle rivolte del 2011 (p. 112). Cosa succede in Tunisia, in Egitto, da allora? Come interpretano la guerra le personalità di cultura araba in Siria? E’ davvero stata messa una pietra tombale sull’esito di quei sommovimenti di un decennio fa? 

Ecco, “Arabpop” spinge a domandarsi se si possa superare la dicotomia tra vita comune e potere, senza ingenuità o esotismi. Invita a guardare come l’avvento dei Fratelli Musulmani dopo il 2011 fosse stato in qualche maniera letto attraverso i movimenti artistici locali. Non esorta, mai, a fare equazioni culturali. Ma neanche a continuare a guardare dal buco della serratura l’ “harem arabo”, in maniera intrusiva, coloniale. Laddove la diversità viene alterizzata, per distanziarsene, non per comprenderla. 

Il primo numero è dedicato alle ‘metamorfosi’ e sin da subito risuona come un invito a leggere e tradurre dall’arabo in italiano i diversi significati di ‘rivoluzione’. E’ un esercizio molto significativo dal momento che ci ricorda quanto il nostro stesso vissuto di ‘rivoluzione’ provenga da una rivoluzione discussa e discutibile: la rivoluzione francese. Bosworth (2001) ha mostrato come nei giorni del settembre 1792 ci fu il massacro di donne dell’ospedale La Salpetrière, prefigurazione delle purghe giacobine del 1793-4. Nessun resoconto storico fu mai pubblicato su questo massacro, solo gli attacchi a uomini e membri del clero e dell’aristocrazia. I corpi delle donne furono violati con la privazione di gioielli e soldi, oltre che con stupri. La Salpetrère era un’istituzione pensata per redimere con il lavoro persone ai margini della società (poveri, malati, ‘pazzi’) ed era prevista una suddivisione rigida per prevenire il contagio, fisico e morale. Abusi di potere da parte di guardie nei confronti delle donne recluse a La Salpetriére erano usuali, così come utilizzare la promiscuità malato-sano come metodo punitivo. La maggior parte delle donne incarcerate aveva commesso delitti contro la proprietà invece che atti violenti. La Salpetriére ospitava prevalentemente prostitute ed era diventato un target per i rivoluzionari a causa dello status di queste donne. Proprio in continuità con l’ancient régime. Le donne avevano istigato la marcia su Versailles del 14 luglio 1789. In seguito, furono considerate pericolose e incontrollabili, dunque da riformare con il carcere (Cousin, 1790). Se le donne avevano conquistato alcuni diritti a livello sociale, familiare e lavorativo con la Rivoluzione, bisogna ricordare che furono escluse dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel diritto di voto, proprietà, accesso alle professioni in ambito di legge-medicina-militare.

L’ideale rivoluzionario dell’Eguaglianza si basava su un elemento di genere: lo stupro, le prostitute, le mogli e madri rifiutate, che erano meno uguali degli altri. C’è una connessione tra la democrazia  e l’esclusione delle donne, dunque? (Fraisse, 1994, p. 2).

Hassan ‘Abbas parla della rivoluzione in Siria in cui aveva tanto creduto: “Chiamatela come volete, criticatela se vi va, prendetevene gioco, traditela, ingannatela, scavatele la terra sotto i piedi, datele un colore, maleditela, fate quello che volete. Tuttavia, parafrasando quel che disse Galileo Galilei ai suoi persecutori: ‘Eppur si rivolta’. La rivoluzione è iniziata e continuerà fino a che non conquisterà quel che la sua gente vuole: una vita dignitosa senza ingiustizia e senza oscurantismo.” (p. 39).

E’ bellissimo leggere come si viene letti (‘Eppur si rivolta’) e in questo estratto emerge chiaro quanto non si possa pensare di inquadrare i cambiamenti della società araba con un interruttore spegni-accendi. Non può tornare niente come prima perché qualcosa è successo, e il tempo, anche qui, ha un senso.

“Arabpop” presenta una struttura polimorfa con poesie, estratti di prosa, interviste, fumetti, musica. La guerra è vomitata nel fumetto dell’artista libanese Lena Merhej (p. 98) ed è molto efficace il modo in cui rende riconoscibili i/le personaggi/e con copricapo, velo, kefiah, barba, ritratti nell’atto di vomitare. Quasi a voler rendere plastico che le persone arabe non sono un tutt’uno con la guerra, non sono votate al massacro, non hanno il conflitto sotto la pelle.  

La Palestina entra attraverso uno scorcio inedito con la poesia, il cinema, la musica pop. E le metamorfosi che “Arabpop” qui raccoglie vertono proprio sull’influsso della ricerca di ‘patria’ nella vita di tutti i giorni. Quella che incarna forse una delle realtà arabe più conosciute per un certo pubblico occidentale viene storicizzata.

Giovanni Vimercati (p. 60) racconta l’evoluzione del cinema palestinese conducendo ai risvolti contemporanei: “Nel cinema più recente emerge una nuova consapevolezza, capace di affrontare il politico in maniera obliqua, sciogliendo le incrostazioni etneo-nazionalistiche che oltre settant’anni di lenta ma inesorabile pulizia etnica hanno inevitabilmente causato. Una produzione che riesce a coniugare forma e contenuto, poetica e politica, sociale e cinematografico in maniera inaspettata e dunque sorprendente.”

La ricerca di una ‘stanza tutta per sé’ nel caso della Palestina sta passando attraverso i concetti di post-gender e post-nazione (pp. 22-24), a dimostrare che un durissimo e atavico conflitto non impedisce di far maturare sentimenti di diversità individuale. E questo approccio appare anche diverso rispetto ad un’altra famosa spoken-artist di origine palestinese, Rafeef Ziadah, che scrive poesie musicate sull’identità erosa e corrosa che resiste all’apartheid fisico e culturale, ma non rinuncia, appunto, alla ‘patria’. Di diritto allo svago parla il cantante pop di Gerusalemme Est – Bashar Murad – che con la sua musica cerca di comunicare cosa significhi per una persona queer vivere sotto occupazione. Il diritto alla gioia, ma anche alla fuga e all’oblio, viene cantato in Intifada On The Dance Floor o in Maskhara (p. 129): «versa un altro bicchiere, rolla una sigaretta, magari mi dimentico di tutta questa merda».

Essere queer ed essere musulman* rappresenta una vita piena ed interstiziale allo stesso tempo. “Life As A Unicorn” (2020, p. 114) lo racconta attraverso quest’autobiografia di un intellettuale iracheno che tratta della sua identità di genere, religiosa, culturale. Come già trattato qui su ArtsLife con “Teologie Queer” , il genere e la religione vengono giocati sulle linee della colpa come ‘scontro di civiltà’ tra una religione (Islam) e una regione terrestre e culturale (l’Occidente).

Da menzionare sicuramente l’attenzione di “Arabpop” alle varie forme di rap maturate in contesti altri da quelli delle periferie statunitensi o occidentali, che rinnovano la linfa oppositiva del genere musicale attraverso le esperienze locali. Come nel caso del rapper Alshamy che in Albo October  parla del ruolo delle donne nelle proteste contro le autorità: «Donne di ottobre/tanto di cappello per voi/che siete la rivoluzione/non la vergogna./Rivoltatevi con noi, noi siamo con tutte voi./Belle signore, siete grandi come Baghdad./ Lo sguardo dei vostri occhi rappresenta la libertà per la vostra famiglia./e sfida chi ci governa» (p. 34).

Su questa stessa scia è un’operazione di apertura mentale guardare a come si sviluppino le traiettorie della stand-up comedy in Egitto (p. 30), dell’arab-punk sempre in Egitto (p. 75-77), attraverso una commistione generazionale e multiculturale nelle città come Alessandria d’Egitto che travalica i ceti sociali e diviene capace di parlare alla società intera. 

Infine, vale la pena soffermarsi sulla sezione dedicata alla musica elettronica proveniente dalla cultura araba (p. 130), ricchissima di suggestioni sonore recensite in maniera efficace (si veda, a questo proposito, Msylma dall’Arabia Saudita). Una sezione prelibata per via delle sue connessioni, a parere di chi scrive, con quel filone ‘afrofuturista’ che ha ridato lo spessore del futuro, della visione tecnologica, della cultura d’avanguardia, ad un popolo, ad una cultura, naturalizzati nella pelle e nella terra che abitano. 

Ghassan Salamé su ISPI il 22 dicembre 2021 scrive: “Sono la sua posizione geografica sulla mappa del mondo, le sue risorse, materiali e simboliche (in particolare quelle religiose) e la sua lunga storia che ne hanno fatto una meta per ambiziosi costruttori di imperi, che impediscono al Medio Oriente di scomparire nell’oblio.  Non è mai successo in passato e, per sua fortuna secondo alcuni o, più probabilmente, per sua sfortuna, non succederà mai”. 

E se l’oblio non ha mai fatto paura al pensiero critico, “Arabpop” si spinge oltre: raccontare quello che ci può piacere della cultura araba.

www.arabpop.it

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