Il Museo Guggenheim di Bilbao presenta una nuova grande esposizione. Protagonista Jean Dubuffet, artista insofferente ai canoni estetici classici e grande sperimentatore. La sua poetica unica è mostra dal 25 febbraio al 21 agosto 2022.
Un varco d’accesso alla forma più autentica e istintuale dell’arte. Questo, e tanto altro ancora, rappresenta Jean Dubuffet per il mondo artistico. Un artista capace di muoversi tra numerosi temi e altrettante tecniche compositive. Sempre sfruttando il suo lessico fanciullesco e immaginifico, un linguaggio fantastico che genera universi eccentrici e ricchi di stimoli.
Su questi principi di muove la mostra Jean Dubuffet: fervente celebrazione, organizzata dal Museo Guggenheim Bilbao. L’esposizione esamina i decenni decisivi della carriera di Jean Dubuffet, dagli esordi negli anni quaranta fino alle ultime serie che completa nel 1984. Il filo rosso? La sua costante sfida ai valori estetici precostituiti. E quindi scordiamoci la bellezza classica e la perizia tecnica, Dubuffet si concentra sull’inatteso, impiegando nella sua opera materiali volgari, temi prosaici e uno stile che rifiuta qualsiasi traccia di formazione accademica.
Per sfuggire da ogni convenzione culturale, l’artista non ha mai dato tregua alla sua ricerca. Ha sperimentato diversi mezzi, come la pittura, il disegno, il collage, la litografia, la scultura e la performance, e si è mosso con disinvoltura tra il figurativismo e l’astrazione, esplorando una moltitudine di strategie compositive e reinventando la sua palette regolarmente. Alle opere ha spesso accompagnato pubblicazioni e conferenze dove spiegava le idee e le teorie antistanti la demolizione della cultura tradizionale. Un impegno trans-mediale in rotta con qualsiasi prospettiva lineare.
Per esempio, al fine di accentuare la natura fisica della sua pittura, ha utilizzato additivi come la calce, il cemento e la sabbia, con cui ispessisce l’olio fino a trasformarlo in un impasto che denomina haute pâte. Con questo mezzo, Dubuffet riuscì a creare superfici dalle texture complesse, donando spessore al dipinto bidimensionale. In questo senso si è anche avvalso di oggetti trovati, come per esempio sassi o corde, e successivamente alluminio. Parallelamente, evita le idee socialmente accettate di bellezza attraverso la scelta di temi poco convenzionali e maniere creative di rappresentarli. Una pratica evidente fin dai primi dipinti, come Ritratto del soldato Lucien Geominne (Portrait du soldat Lucien Geominne) (1950) e nella sua serie di nudi intitolata Corpi di donne (Corps de Dames) (1950-51), ma che si estende anche alle rappresentazioni di muri scrostati, porte rovinate, terra e sassi.
Tra il 1962 e l’inizio degli anni ‘70, Dubuffet esegue il suo corpus più vasto: le Hourloupe. Si tratta di dipinti e sculture che si distinguono per le trame di celle intrecciate, molte di esse piene di righe parallele, spesso di colore rosso, blu e bianco. Con le Hourloupe, presenti nell’esposizione con opere quali Nunc Stans (1965) e Bidon l’Esbroufe (1967), Dubuffet stabilisce un lessico con il quale crea ed esplora un universo fantastico e in continua espansione.
La complessità delle sue composizioni genera volontariamente una certa ambiguità visiva. Questa qualità enigmatica suggerisce la fugacità di ciò che è solo in apparenza permanente e l’aleatorietà di ciò che si presume definisca la forma di un oggetto. Nel complesso, tale effetto suscita una riflessione intorno al rapporto tra la percezione e la realtà, questione di massima importanza per l’artista.
Tanto che nell’ultima fase della sua vita Dubuffet si concentra più intensamente sui meccanismi della mente, in particolare per quanto riguarda il suo rapporto con il mondo esterno. Nella serie Teatri della memoria (Théâtres de mémoire) (1975-79), Dubuffet sfrutta i suoi personalissimi idiomi per evidenziare le modalità tramite cui la mente integra la percezione, i ricordi e le idee per cercare di dare senso a ciò che accade e a ciò che la circonda.
La ricerca giunge ai suoi esiti sportivi con le due ultime serie dell’artista: Mire (Mires) (1983-84) e Non-luoghi (Non-lieux, 1984), che sono presenti nella mostra con le opere Mira G 132(Kowloon) e Data (Donnée) (1984). Grovigli di linee in cui non si riconosce nessuna iconografia. Con questi dipinti, Dubuffet analizza come sarebbe l’esperienza se la mente non organizzasse il mondo esterno in categorie prefissate e socialmente stabilite, estendendo questa idea anche alla distinzione tra la realtà e l’immaginario. L’artista crede che, senza queste limitazioni, la gente potrebbe accedere a possibilità nuove e illimitate esperienze creative.