L’11 febbraio 1948 muore a Mosca il regista russo Sergej Ėjzenštejn, nato a Riga nel 1898. Aveva solo 50 anni e a stroncarlo fu un infarto. Ėjzenštejn fece parte di quel movimento definito “avanguardia sovietica” in cui il cinema russo (anni ’20) conobbe una fase di intenso sviluppo. Movimento che venne immediatamente percepito come un potente strumento di ‘agitazione’ e, al tempo stesso, come una forma espressiva dotata di potenzialità ancora largamente inesplorate.
Per Kulešov, Pudovkin, Ėjzenštejn e Vertov (questi i più importanti cineasti sovietici di quegli anni), la pratica creativa risultò indissociabile dalla riflessione teorica sull’autonomia formale del cinema e dalla lotta, spesso aspra, per legittimare e difendere un progetto politico. Erano un gruppo di artisti giovani, provenienti da esperienze disparate (teatro, pittura, studi scientifici). Si appropriarono del nuovo mezzo solo dopo la rivoluzione e in rapporto ai suoi valori. Riuscirono a immettervi una carica innovativa rilevante. Tutti partono da un rifiuto nei confronti di uno spettacolo in cui lo spettatore è un soggetto passivo e inerte, per abbracciare un cinema dove quest’ultimo è continuamente stimolato.
Tra di loro senza dubbio in Italia il più noto è Ėjzenštejn, grazie anche al poco nobile servizio che gli fece il film del 1976 “Il secondo tragico Fantozzi” in cui Paolo Villaggio pronuncia la famosa frase «La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca» (dove “Potëmkin” diventa “Kotiomkin”). E così del capolavoro del regista russo, pur essendo tra i film obbligatori da vedere per gli studenti di “Storia e Critica del cinema” all’università, gli unici spezzoni che sono restati in testa alla gran parte della gente sono quelli presenti nel film di Luciano Salce.
Ma perchè Ėjzenštejn decise di fare un film sull’ammutinamento della corazzata russa il cui equipaggio si ribella agli ordini impartiti dagli ufficiali zaristi? Perchè il giovane Sergej nel 1917 fu uno di quelli che lasciarono gli studi per partecipare alla rivoluzione bolscevica come membro dell’Armata rossa. Le sue accese idee politiche lo portarono tre anni dopo a lavorare per il Proletkult, l’«organizzazione culturale-educativa proletaria» incaricata di definire le basi di una nuova arte sovietica, e da lì, dopo le prime produzioni teatrali, cominciò a dedicarsi al cinema con i primi cortometraggi.
Il suo primo lungometraggio Sciopero! uscì nel 1924 e raccontava la crudele repressione di uno sciopero in una fabbrica. Il film conteneva già alcune delle innovazioni che Ėjzenštejn perfezionò ne La corazzata Potëmkin che uscì l’anno dopo ottenendo un grandissimo successo internazionale da parte dell’appena nata critica cinematografica.
Elaborando la teoria delle attrazioni, ovvero quel procedimento che intende scuotere lo spettatore con una sorta di violenza visiva, Ėjzenštejn sa di suscitare emozioni e nuove idee. Con lui si afferma il cine-pugno che vede l’accostamento di due inquadrature che non avvengono per accumulazione e omogeneità, ma per contrasto, scontro, disomogeneità. Un cinema che che mira a colpire lo spettatore proprio come un pugno che arriva in faccia di colpo, e lo fa attraverso le immagini, con primi piani improvvisi, molto ravvicinati, espressioni violente e azioni serrate. La corazzata Potëmkin è un film-esempio dell’utilizzo del montaggio in chiave ritmico-dinamica. Proprio per questo non ha nulla di noioso, malgrado quanto sostenne la satira di Salce.
Nei film di Ėjzenštejn si legge anche la sua preparazione da architetto, professione che abbandonò scoprendosi più interessato all’estetica, alla pittura ed alla psicologia, ma che gli servì per disegnare gli storyboard dei suoi film. Da perfetto bolschevico amava poco l’America, ma pare che ritenesse l’opera di Walt Disney «il più grande contributo del popolo americano all’arte».
Insomma, non ricordiamo questo grande artista russo solo per la famosa scena sulla scalinata di Odessa, in cui la “la carrozzella con il bambino” scende inesorabilmente verso la distruzione e la morte (sempre per citare Villaggio), ma guardiamo ad Ėjzenštejn come a un genio vitale, “uno dei più grandi talenti della disciplina del montaggio cinematografico, un mago nell’organizzazione dei materiali che ha avuto un enorme merito nello sviluppo del linguaggio”come disse il regista Peter Greenaway, l’autore inglese che nel suo “Eisenstein in Messico” scelse di affrontare un tema spinoso riguardante il regista russo: la sua omosessualità, non dichiarata, per non incappare nelle ire della società sovietica.