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Vanni Santoni ci racconta l’irredimibilità del male ne ‘La verità su tutto’

Cleopatra, detta Cleo, è la protagonista del nuovo romanzo di Vanni Santoni, La verità su tutto, edito da Mondadori e proposto da Edoardo Nesi per la LXXVI edizione del Premio Strega

Nella sua vita, Cleo ha un lavoro e una relazione appagante: è una sociologa e accademica cresciuta nel contesto borghese valdarnese e convive con una ragazza di nome Laura, che lavora in una casa editrice. 

All’inizio del romanzo, Cleo incappa in un video che la sconvolge al punto da cambiare il corso della sua esistenza. È un filmato in cui crede di riconoscere la sua ex ragazza Emma. Ex che Cleo ha tradito e insensibilmente lasciato per stare con Laura. Dopo aver visto quel video, il pensiero di Cleo ritorna, ossessivamente, su Emma: di giorno e di notte, Cleo è perseguitata dal fantasma di Emma e rimugina sul male fatto a quella ragazza. Da questo momento in poi, Cleo comincia a riportare alla memoria e a riflettere su tutti i momenti della sua vita in cui ha agito spinta dal male. Non solo ha effettuato torti nei confronti di chi le stava accanto, ma non ha mai compiuto nessun gesto per redimere quelle offese.                                

A questo punto, Cleo comincia una più ampia e generale riflessione su cos’è il male, e in parallelo su cos’è il bene, e si iscrive alla facoltà di Lettere, nella speranza che la letteratura possa sbrogliare “il problema del male meglio della religione e della filosofia”.   

Resasi conta che la sola teoria non è sufficiente per raggiungere una redenzione interiore, Cleo intraprende un percorso di ascesi spirituale, con l’obiettivo di diventare una santa, una donna pienamente realizzata.  L’incontro con Kumari, la dea-bambina, la porterà a fondare una propria comunità che diventerà un’importante congregazione spirituale e politica.      

Vanni Santoni

La verità su tutto è un libro raro: un romanzo contemporaneo che narra una ricerca spirituale contemporanea – non solo teorica, ma anche, e soprattutto, pratica – che ha il fine di raggiungere la santità e l’illuminazione. Siamo soliti leggere libri che parlano di ricerche spirituali ambientate in epoche passate, antecedenti al nostro secolo moderno. Come mai hai deciso di collocare questo percorso di ascesi nel XXI secolo? È stata una maniera per combattere lo stigma sociale che ci conduce a bollare scelte di vita di questo genere come “fuori di testa”?
Rispetto all’India medievale (ma pure a quella contemporanea), ambientare una storia di ricerca spirituale nella contemporaneità occidentale presentava delle sfide narrative più interessanti: la “peer pressure” di amici, colleghi, familiari e affetti, anzitutto, ma anche l’esplorazione di contesti che, propugnando percorsi di adesione integrale, si posizionano automaticamente in zone liminali e a loro modo “anti-sistema” del presente. Sacche in cui è andato a nascondersi il desiderio utopico contemporaneo, per dirlo con le parole che Daniele Giglioli usò, acutamente, scrivendo di Muro di casse e della Stanza profonda, due miei libri dedicati a sottoculture diverse ma cronologicamente parallele quali i free party (volgarmente detti rave) e i giochi di ruolo.

 

Quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella costruzione di questo cammino mistico?
Quando ho cominciato a scrivere questo romanzo non avevo modelli precisi, ma solo perché come al solito i libri che mi stavano ispirando erano decine; a posteriori è facile citare il Siddhartha di Hermann Hesse, la Vita di Milarepa di Tsangnyön Heruka o Franny & Zooey di J.D. Salinger come possibili antecedenti della Verità su tutto, ma in realtà questo romanzo nasce da un più vasto e variegato coacervo di testi, non sempre legati al tema spirituale. Forse, se dovessi citarne solo uno, direi La montagna incantata di Thomas Mann, che ha avuto un’influenza indiretta, sotterranea, ma decisiva. Forse anche L’uomo senza qualità di Musil, che del resto è suo parente stretto. Per quanto riguarda la “parte del Paradisino”, c’è invece un rimando molto chiaro e deliberato, che è Perturbamento di Thomas Bernhard.

Si poteva non fare il male?, si domanda a un certo punto la protagonista. In “La città dei vivi” lo scrittore Nicola Lagioia racconta una tragica vicenda in cui il male è il protagonista del libro: un male compiuto in maniera quasi inconscia e di cui, di conseguenza, non si sentono la responsabilità e la colpa. Cleopatra, invece, è fortemente consapevole del male che ha fatto, e proprio per questo avverte la sua colpa. Dunque, possiamo individuare nel senso di colpa il motore, la miccia, dell’intera indagine di Cleopatra?
Premettendo che il male fatto nel proprio passato da Cleopatra Mancini non è paragonabile a quello, efferato (e oltrettutto reale), raccontato da Nicola Lagioia nel suo bellissimo La città dei vivi, credo che nella Verità su tutto il vero nodo sia, più che il male in sé, la sua irredimibilità. Come l’Agostino delle Confessioni, che a distanza di decenni ancora si cruccia di aver rubato delle pere da bimbo a un contadino, o di aver avuto delle amanti quando era studente a Cartagine, Cleo, nell’identificare i “punti di male” del proprio passato, scopre che, a meno di credere fermamente in un principio divino capace di ripulire la “fedina morale”, il male fatto… resta. Ci si può scusare, si può provare a non farlo più, si può sperare che il tempo risarcisca le ferite, ma nella nostra “tempolinea”… rimane. La sua riflessione sull’etica prima e sulla trascendenza poi, e poi i suoi molti viaggi, e poi le sue vere e proprie avventure, cominciano da lì perché in genere, per chi è cresciuto in un contesto laico, secolarizzato, è dal problema del male che nascono le prime riflessioni sull’etica, da lì sul bene e sulla salvezza, e da lì sulla trascendenza. 

 

Cleo ha perso la madre quando era ancora una bambina. Tuttavia, non ha mai veramente riflettuto sul problema del male naturale. Come mai?
Credo che Cleo abbia subìto quel male, semplicemente, e successivamente lo abbia elaborato come una semplice fatalità, senza mai del tutto superarlo, direi più archiviandolo, visto anche il suo impianto teorico di partenza, che è quello del materialismo storico. Ma bisognerebbe chiedere a lei, e non parla mai volentieri di quel periodo.

 

Sopperire al male fatto studiando”: la conoscenza contro la colpa, e la consapevolezza di aver fatto del male. Cercare risposte nei libri. A chi non è mai capitato? Ci sono dei libri in cui hai trovato le risposte a ciò che cercavi in quel momento?
Il primo “movimento” di Cleo, prima di andare alla scoperta delle comunità appenniniche, di ritirarsi in un eremo da sola o di aderire alla bizzarra ciurma del Paradisino, è quello di rimettersi a studiare. È normale, credo: siamo cresciuti in una cultura prettamente libresca, un fatto che in Occidente abbraccia financo la spiritualità – si pensi al fatto che le tre grandi religioni monoteiste sono dette “religioni del Libro”. Ma la vera mistica è inevitabilmente prassi, e come sta scritto nel Vivekachudamani, chi cerca risposte nei testi è uno stolto (notare l’ironia insita nel fatto che ciò… sta scritto in un testo). Sicuramente, però, esistono dei testi che possono costituire un valido appoggio alla pratica, o almeno una piccola scala iniziale… Quelli che sono stati significativi per me sono più o meno quelli che lo sono stati per Cleo, anche se magari in un ordine differente, e sono tutti citati esplicitamente nella Verità su tutto: in genere, quando scrivo un libro che ha una sua bibliografia, cerco sempre di includerla direttamente nel testo. 

 

Simone Weil è la tulpa di Cleo. Anche tu ne hai una?
Ne ho avute due, da piccolo. Dato che non siamo in Tibet, da noi le tulpa, le “forme pensiero manifestate”, hanno un nome più prosaico: amici immaginari. Si chiamavano Pozzocomo e Filomeno. Sono ancora qui, da qualche parte. 

 

Vanni Santoni | La verità su tutto
ISBN: 9788804746140
300 pagine
Prezzo: € 19,50
Edito Mondadori
In vendita dal 18 gennaio 2022

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