Print Friendly and PDF

Il Parco del Colosseo ricorda l’archeologo Giacomo Boni con una grande mostra

Il Comizio e il Lapis Niger in occasione della scoperta nel 1899. Credito Parco archeologico del Colosseo Archivio Fotografico Storico (PaC-AFS)

Uccelliere Farnesiane sul Palatino. Ph Simona Murrone

Il Parco archeologico del Colosseo ospita, fino al 30 aprile, “L’alba della modernità”, una grande mostra dedicata a Giacomo Boni (Venezia, 1859 – Roma, 1925), straordinaria figura di archeologo e architetto (studiò da autodidatta e ciò gli valse l’avversione o l’indifferenza del mondo accademico), ormai conosciuto e stimato pressoché soltanto dagli “addetti ai lavori” (dopo alcuni decenni di ostracismo), ma che godette, in vita, di notorietà e apprezzamento internazionali. Basti sapere che gli vennero conferite ben due lauree honoris causa: una a Oxford, l’altra a Cambridge.

Quattro le sedi coinvolte nell’iniziativa, distribuite tra il Foro Romano e il Palatino, i luoghi, cioè, dove con maggior incisività e passione si è svolta l’intensa attività del grande archeologo: il Tempio di Romolo al Foro Romano, la chiesa medievale di Santa Maria Antiqua (portata alla luce proprio da Boni: una scoperta che ispirò, all’epoca, la moda del bizantinismo) con la vicina rampa di Domiziano, il Complesso conventuale di Santa Maria Nova con il museo forense (istituito dall’archeologo veneziano nel 1908 per raccontare e divulgare le sue scoperte, e riaperto oggi al pubblico dopo circa trent’anni di inagibilità), le Uccelliere farnesiane sul Palatino, dove prese dimora negli ultimi anni della sua vita (e dove è possibile apprezzare una ricostruzione del suo frequentatissimo studio).

Mongolfiera Tempio di Romolo_ph Simona Murrone

Fu uomo di conoscenza vastissima e molteplice, coltivata tra Venezia e Roma, le città in cui visse e si formò, agitate entrambe da fermenti e da stimoli di ampiezza europea. Dal positivismo comtiano recepì quell’attenzione per l’immediata concretezza del dato empirico che, maturata negli anni, farà di lui il precursore di numerose applicazioni tecnologiche nella ricerca archeologica, come, ad esempio, la tecnica dello scavo stratigrafico  che ha permesso scoperte sensazionali sulla Roma arcaica (si pensi alla risonanza mondiale che ebbe il ritrovamento del misterioso lapis niger nel Foro Romano). O come la mongolfiera, in mostra nel Tempio di Romolo, utilizzata per documentare gli scavi con riprese fotografiche dall’alto, anticipando la fotografia aerea e l’attuale impiego dei droni. Dal milieu simbolista (Boni fu amico di William Morris e di Gabriele D’Annunzio) trasse quel senso panico della natura, avvolgente mediatrice di bellezza tra gli uomini e le antiche rovine; e il sentimento di quell’oscuro impulso vitale che, attraversando carsicamente i secoli e i millenni, sarebbe in grado, attivandosi, di attualizzare la storia, di vivificarla, purchè vi sia un “mago” che sappia suscitarlo. Con la sua azione visionaria, Giacomo Boni ha plasmato, ha creato il parco archeologico del Colosseo conferendogli l’assetto paesaggistico che noi oggi possiamo ammirare. Con il culto della romanità, che mai si stancò di divulgare, influenzò molti artisti del tempo (vediamo in mostra opere di Cambellotti, Grassi, De Chirico, Sartorio, De Carolis) e, soprattutto, il nascente movimento fascista al quale aderì con entusiasmo. Fu estimatore di Mussolini che gli commissionò la ricostruzione filologica di quel fascio littorio sul quale, dal dopoguerra,  si affaccenderanno, a lungo e con vigore, gli scalpelli antifascisti.

Commenta con Facebook