La figlia oscura, arriva al cinema il film di Maggie Gyllenhaal tratto dal romanzo di Elena Ferrante e candidato a tre premi Oscar
“Le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire”. È con queste parole che si chiude il primo capitolo del terzo romanzo di Elena Ferrante, La figlia oscura. Un incipit calzante, considerando come il libro ruoti attorni a un gesto apparentemente incomprensibile. Leda è una professoressa di Lettere di mezza età. Le figlie, ormai cresciute, vivono in Canada con il padre, così lei decide di passare una vacanza in solitudine sulla costa ionica. Lì, sviluppa un interesse quasi morboso per una giovane madre napoletana, accompagnata dalla sua numerosissima (e insopportabile) famiglia acquisita, e dalla sua bambina. Quando la piccola perde in spiaggia l’amata bambola, Leda la prende e la tiene. Poco importa se la piccola sembra inconsolabile, tanto da spingere la famiglia ad appendere volantini e promettere ricompense: Leda se la tiene e non lo dice a nessuno. Perché? Proprio su questo bizzarro interrogativo prende corpo il romanzo di Ferrante, bellissimo e brutale.
Bisogna riconoscere un certo coraggio a Maggie Gyllenhaal per aver scelto di adattare, al suo esordio come regista, proprio quest’opera. Non si tratta, infatti, di un libro immediatamente cinematografico: i dialoghi sono pochi e la maggior parte della storia avviene nella testa di Leda, che osserva, pensa, rimugina e soprattutto ricorda, in modo frammentario, discontinuo e angosciato, la sua esperienza di madre. L’opzione più semplice, probabilmente, sarebbe stata quella di prendere il romanzo come un vago riferimento di partenza e renderlo più dialogico, più dinamico. Ma Gyllenhaal questo non lo fa mai: il suo evidente amore per il materiale di partenza la vincola a una grandissima fedeltà al testo ferrantiano. L’approccio della regista, che dell’adattamento firma anche la sceneggiatura, si può ricondurre a una frase pronunciata da Leda all’interno del romanzo: “Il non detto parla più del detto”. Tenendo fede a queste parole, Maggie Gyllenhaal è riuscita a raggiungere un risultato non frequente, un’opera che sia contemporaneamente un ottimo film e un ottimo adattamento.
La fedeltà della regista al romanzo non si traduce mai in un rispetto cieco e ossequioso, tanto che tra il libro e l’adattamento esistono varie differenze. Alcune sono minori, e in qualche modo obbligate dalla produzione internazionale del film e dal suo cast anglofono: dunque, Leda (Olivia Colman nel presente, Jessie Buckley nel passato), da professoressa italiana di letteratura inglese, diventa una professoressa inglese di letteratura italiana; la meta della vacanza non è più un paesino della costa ionica, ma l’isola Spetses in Grecia; la rumorosa e invadente famiglia di Nina (Dakota Johnson) non è più napoletana, ma originaria del Queens. Altre differenze sono più rilevanti: non tutte funzionano (come la scelta del finale aperto), ma la maggior parte sì. Ad esempio, la scelta di posticipare una rivelazione cruciale sul passato della protagonista aggiunge al film un elemento di ulteriore mistero, che nel libro manca e non serve, ma che incrementa considerevolmente la suspense dell’adattamento. La fedeltà della regista nei confronti dell’autrice non sta tanto nel voler seguire il testo alla lettera, ma nel suo modo di trasformare in linguaggio cinematografico lo stile asciutto e violento di Elena Ferrante. È come se la cinepresa si comportasse allo stesso modo della penna dell’autrice: osserva e assorbe tutto, registra una serie infinita di dettagli, anche minimi, che finiscono per accumularsi e disperdersi nella percezione parziale, nervosa e tormentata della protagonista.
Il film, come il romanzo, si focalizza sull’interiorità: ogni cosa è filtrata attraverso la prospettiva di Leda, i suoi desideri, le sue ossessioni. Non è un caso che il paesaggio greco appaia sempre sacrificato, persino spento, poco più che uno sfondo: Leda potrebbe essere lì come in qualsiasi altro posto, non c’è spazio nella sua visione se non per pochi oggetti e pochi individui che rispondono al suo dolore. La regista costringe lo spettatore a seguire le vicende attraverso la visione asfittica di una donna tormentata e contraddittoria, ci costringe a vivere nella sua mente e ci costringe all’identificazione: così che anche quando scopriamo gli aspetti più oscuri di Leda, non possiamo né giudicarla né condannarla. La conosciamo troppo bene.
L’attenzione della regista per i suoi attori e il suo intuito su come valorizzarli sono evidenti, non c’è una singola performance fuori posto. A brillare, ovviamente, sono soprattutto le tre interpreti principali. Solo Guadagnino, prima di Gyllenhaal, era riuscito a sfruttare così sapientemente i punti di forza di Dakota Johnson, la sua capacità di condensare una miriade di ambiguità nel suo volto da sfinge. All’inizio, la regista la inquadra sempre a distanza, costruendole attorno un alone indefinito di mistero e irraggiungibilità; poi, le si avvicina sempre più, lasciando intravedere incrinature nella facciata di madre affettuosa. Perfette anche le attrici che interpretano il personaggio di Leda, Jessie Buckley e Olivia Colman, in un tandem magnetico e equilibratissimo. Il suo ritratto sfaccettato è il veicolo con cui la regista solleva le domande poste dal romanzo di Ferrante: i sacrifici e le rinunce di una madre sono davvero ricompensati dall’affetto? Una donna che sente la maternità come un fardello è snaturata, o a essere profondamente innaturale è l’immagine che la società si aspetta, quella della madre devota, serena e soddisfatta? Bisogna restare o scappare? E se la scelta pende verso la seconda opzione, può davvero la fuga essere una liberazione?
Proprio come Ferrante, Maggie Gyllenhaal non si preoccupa di fornire risposte a questi dilemmi, di scegliere una parte della ragione: si limita a rappresentare, e a lasciare che sia lo spettatore ad arrovellarsi in cerca delle sue risposte. In un’epoca storica piena di biopic e racconti esemplari, l’opera di un’artista che non vuole insegnare ma stimolare, che non vede nello lo spettatore qualcuno a cui dare una lezione ma qualcuno con cui dialogare, è rinfrancante.
La figlia oscura, presentato a Venezia 78 e candidato a tre premi Oscar (miglior attrice a Olivia Colman, miglior attrice non protagonista a Jessie Buckley e migliore sceneggiatura non originale a Maggie Gyllenhaal), arriva nei cinema italiani dal 24 marzo.