Print Friendly and PDF

L’arte è donna? Sibilla Aleramo, una poetessa innamorata dell’amore

Sibilla Aleramo
Sibilla Aleramo

Amarcord 36 – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi: l’arte è donna? Aneddoti vissuti sulle donne artiste partendo da lontano, Sibilla Aleramo

Sibilla Aleramo è stata una grande poetessa e scrittrice italiana e una donna straordinaria dal grande temperamento e femminista ante litteram, la cui biografia stupì la mia prima giovinezza.

Seppi di lei perché per una stagione visse una storia d’amore memorabile con il mio poeta mitico quando iniziai ad interessarmi di poesia e di cui sapevo tutto, nei primi anni ’50, Dino Campana, il poeta maledetto, il Rimbaud italiano, il poeta pazzo di Marradi ma anche grande rinnovatore della poesia italiana. Sibilla (alias Rina Faccio, nata ad Alessandria ma che da bambina si trasferì nelle Marche al seguito del padre ingegnere) stuprata a 15 anni da un collega di lavoro a Civitanova Marche, rimase incinta ma perse il figlio nel parto. Poi dai tempi fu costretta a sposare, anche se con disprezzo il suo carnefice da cui ebbe un figlio che amò immensamente e a cui dedicò alcuni anni della sua vita coniugale ma che successivamente, una volta trasferiti a Roma, lasciò con dolore straziante per non vivere con il marito che la maltrattava e sperando di poter avere in affidamento il bambino.

Ma le leggi di allora non erano tenere verso le donne liberali per cui il Tribunale di Roma decise che il bambino doveva restare con il padre. Dunque lasciò marito e figlio con la disperazione nel cuore ma con la speranza almeno di vivere una vita diversa, da donna libera. L’inizio di una collaborazione con una rivista femminile le permise di rendersi indipendente e di prendere coscienza che una donna poteva vivere ed esprimersi anche al di fuori della famiglia. Inoltre, il ricordo di sua madre che aveva sacrificato la vita per i figli e per un marito padrone della sua esistenza (e che la manderà in manicomio) l’aiutò in una autoanalisi liberatoria e rigenerante. Visse collaborando con giornali e riviste iniziando ad essere apprezzata dal mondo letterario di quell’epoca.

Nel 1907 uscì il suo romanzo autobiografico, Una Donna, il primo vero bestseller italiano tradotto in francese, tedesco, inglese, spagnolo, svedese, polacco, danese, olandese e, pensate un po’, in sardo campidanese (non so cosa sia), in cui denunciava la condizione delle donne e rivendicava la parità tra i sessi.

Care amiche e amici, siamo nel 1906. Tempi duri credo, per una donna. Con lei affiora il primo vero femminismo. Sibilla era affascinata dal talento e dalla intelligenza e le sue esperienze amorose furono tutte circoscritte all’ambito artistico culturale del suo tempo (Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Julius Evola… Da ultimo il giovanissimo e promettente ma cinico poeta Franco Matacotta, di Fermo, di 40 anni più giovane di lei e che le sottrasse alcuni documenti inediti anche su Dino Campana). Sibilla fu molto libera ed emancipata, soprattutto innamorata dell’amore che esaltò nel suo libro, Amo dunque sono.

Sibilla Aleramo, un diluvio di passioni

Questa sua libertà, questa sua fedeltà a se stessa e infedeltà agli uomini, questo diluvio di passione che sgorgava dalla sua vita, la rese anche invisa a molti. Giuseppe Prezzolini, amico di Giovanni Papini, grande intellettuale italiano ma un po’ parruccone, la definì “il lavatoio sessuale della cultura italiana”. Ma il grande, unico, immenso amore di Sibilla fu il poeta Dino Campana, che lei incontrò nell’estate del 1916, subito dopo aver letto i Canti Orfici che il poeta di Marradi aveva da poco pubblicato. I Canti Orfici, il capolavoro di Dino Campana uscì nel 1914, ma sarebbe dovuto uscire almeno un anno prima con il titolo Il più lungo giorno, ma il manoscritto in copia unica consegnato per essere pubblicato a Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che allora dirigevano la famosa rivista letteraria Lacerba sembrò andare smarrito. Fu invece ritrovato tra le carte di Ardengo Soffici, dopo la sua morte, nel 1971. Dino Campana, disperato riscrisse il libro a memoria di cui però cambio il titolo in Canti Orfici, perpetuando un odio anche ostentato nei confronti di Papini e Soffici e dei fiorentini in genere, convinto che il libro, per invidia, gli fosse stato sottratto. Come infatti fu, dall’invidioso e mediocre Ardengo Soffici.
L’amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana durò una sola estate, quella del 1916, ma fu devastante per entrambi. Un amore frutto di attrazione intellettuale (ma anche fisica) per entrambi e che spesso sfociò in litigi furibondi con un Campana, primitivo e pazzo, che la malltrattava e picchiava a sangue per gelosie ingiustificata o per sue allucinazioni maniacali. Ma che Sibilla, donna sopravvissuta ai maltrattamenti e a grandi dolori dell’infanzia, sopportò con grande sofferenza e amore:

“Rose calpestava nel suo delirio
e il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!
Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo a la fronte che adorava”.

Grande poetessa e donna straordinaria, Sibilla Aleramo aprì la stagione delle donne indipendenti ed emancipate agli albori del secolo scorso. Una vera stagione all’inferno (Une saison en enfer), giusto per parafrasare Arthur Rimbaud, fu quella vissuta dalla stoica Sibilla Aleramo con Dino Campana, poeta grandissimo ma uomo psichicamente malato. Le cronache lo ricordano quando lui, vestito di stracci e scalzo, entrava nell’elegante caffè fiorentino Le Giubbe Rosse e nel contiguo Paszkowski, frequentati dalla Firenze bene e dagli intellettuali di tutta Italia, chiedendo di acquistare copie sgualcite del suoi libro di poesie Canti Orfici, di cui doveva ancora saldare il conto alla tipografia che l’aveva stampato. E al rifiuto si infuriava e aggrediva l’interlocutore, che spesso chiamava la forza pubblica che lo portava in prigione: infatti poco dopo fu internato in manicomio, dove restò sino alla morte nel 1932. Aveva 47 anni.

Sibilla Aleramo e Dino Campana, 1916.

Come conobbi Sibilla Aleramo

Nel 1956 io ebbi un momento di notorietà che durò qualche anno: partecipai a Lascia o Raddoppia (agli esami di ammissione al programma con me c’era anche John Cage esperto di funghi, Sergio Dangelo, esperto in jazz e Filiberto Menna, esperto sull’Impressionismo), una fortunata trasmissione di Mike Bongiorno sull’unico canale televisivo che esisteva, dunque quasi tutti gli italiani dai dieci anni ai novanta, erano incollati davanti alla prima TV nazionale, tentando di rispondere al quiz insieme al concorrente. Non esistevano altri canali né pubblici né privati. Si calcolò che gli utenti furono circa 35 milioni. E i partecipanti a Lascia o Raddoppia, soprattutto i primi, di cui io ero parte, diventarono i primi italiani a diventare famosissimi, da Milano a Lampedusa. Cari amici lettori, voi non potrete mai immaginare quale fosse la notorietà dei partecipanti a Lascia o Raddoppia. Dal pizzicagnolo alle commesse di Upim, dal politico all’uomo d’affari, noi eravamo i nuovi eroi di una Italia che stava rinascendo. Ricordo che venne da me alla Rai di Milano, durante la trasmissione, un famoso sottosegretario all’industria, Filippo Micheli di Terni, anche storico tesoriere della DC (frequentatore di Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Michele Sindona, Paul Marcinkus: tutto il potere finanziario degli anni ’50) per chiedermi di lanciare un appello al governo per intervenire a favore dell’Umbria, che a causa di una gelata invernale aveva distrutto tutti gli ulivi dell’Umbria, unica risorsa economica della regione da cui io e lui provenivamo. E che a causa di quella gelata fu messa economicamente in ginocchio. E il famoso sottosegretario si rivolgeva per aiutare la propria regione ad un mezzo contadinotto umbro quale io ero, per sollecitare il governo, anziché fare una interpellanza parlamentare alla Camera che non sarebbe servita a nulla.

Io a Lascia o Raddoppia

In quegli anni io ero un grande appassionato e conoscitore di poesia contemporanea e quasi per gioco inviai una domanda di partecipazione alla famosa trasmissione a Mike Bongiorno per partecipare a Lascia o Raddoppia, ricordo bene, su una sgualcita cartolina di Trevi, il mio paese. Trasmissione che stava riscuotendo un successo sconvolgente presso tutti gli italiani. E con mia grande sorpresa fui accettato e diventai anche un piccolo personaggio, al punto che Mike Bongiorno mi chiese di leggere una mia poesia davanti ad oltre 30 milioni di persone. La risposta fu una richiesta esorbitante di una copia della poesia. Ma allora non esistevano mezzi di riproduzione come oggi e ogni copia della poesia doveva essere battuta a macchina. Usando una scolorita azzurrognola carta copiativa si potevano stamparne sino a 3/4 copie, su carta sottile. Ricordo che l’abitazione di una mia zia a Milano dove risiedevo quando partecipavo alla trasmissione, era circondata da giornalisti che mi volevano intervistare e mi seguivano anche al ristorante. E il giorno della trasmissione articoli in prima pagina nel Corriere di Informazione e Corriere della Sera e persino sull’Osservatore Romano. Inutile dire che grazie a questa mia partecipazione divenni molto popolare tra i poeti che io citavo e che nessuno conosceva e su cui Mike Bongiorno mi poneva delle domande: Ungaretti, Montale, Quasimodo e appunto Dino Campana su cui mi pose una domanda quasi impossibile: ci dica chi è quel poeta che per sopravvivere suonava il triangolo nella Marina Mercantile Argentina. Era appunto il “pazzo” Dino Campana, dalla vita impossibile e la cui poesia e biografia mi appassionarono a tal punto che io sapevo quasi tutto su di lui. Poi, in un viaggio insieme a New York, con Umberto Eco nel 1985, invitati dalla New York University per una lecture, Umberto mi confessò subdolamente che quella domanda impossibile l’aveva formulata lui, allora consulente della Rai, sicuro che io non potessi rispondere. Domanda però a cui io risposi avendo curiosato in tutti gli aspetti della vita di Dino Campana, sino al suo definitivo internamento al manicomio di Scandicci, dove appunto morì.

Vincenzo Cardarelli, 1957. Foto di Paolo Monti.

L’incontro commovente tra Sibilla Aleramo e Vincenzo Cardarelli

Nel 1957 o forse 1958 risiedevo a Roma e lavoravo, guadagnando 25 mila lire al mese (13 euro di oggi) alla Fiera Letteraria, diretta da Vincenzo Cardarelli, allora estimatore della mia poesia. Sapendo che ero disperato, mi offri’ un posto di redattore alla Fiera Letteraria, all’epoca il solo organo di stampa culturale italiano. Guadagnavo una miseria (ma con cui in qualche modo sopravvivevo e ora non saprei dire come) ma entrai in contatto con tutti i poeti italiani e anche con gli aspiranti, dopo aver conosciuto tutti i maggiori.
Vincenzo Cardarelli all’epoca aveva circa 70 anni ma non stava bene. Lo ricordo al caffè Doney in via Veneto, un po’ malconcio che faceva fatica anche a sorbire il suo cappuccino. E io in qualche modo lo aiutavo. E guardando passare giovani sani e aitanti mi disse: sai Politi, un tempo io ero più bello di Gassmann. Ricordandomi che lui aveva avuto una storia sentimentale con Sibilla Aleramo cinquant’anni prima, gli chiesi di incontrarla insieme. A quei tempi Sibilla, dimenticata da tutti, abitava in via del Babuino, in una modestissima abitazione, mi pare aiutata da qualche sussidio governativo per i letterati. In quegli anni io consideravo Cardarelli tra i migliori poeti italiani:

“Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata”.

E di fronte a questi versi e al loro seguito, io mi emoziono ancora.
Dunque, dopo un appuntamento telefonico ci incamminammo verso l’abitazione della Aleramo, non lontana da Via Veneto.
Ci accolse una signora ultra settantenne ma ancora altera e la cui antica bellezza traspariva evidente.
Vincenzo Cardarelli e Sibilla Aleramo si abbracciarono in silenzio e su entrambi i volti scorsero abbondanti lacrime. Grazie a me i due ex amanti si ritrovavano dopo cinquanta anni sulla soglia della morte ed entrambi lo sapevano. Io guardai con ammirazione questa coppia, grande protagonista della cultura italiana, che si abbracciava come due adolescente intimiditi.
Malgrado l’emozione volli chiedere alla Aleramo qualcosa su Dino Campana. Dino e’ stato il mio grande e unico amore, ma anche la mia più grande disgrazia. Se non lo avessi lasciato in tempo mi avrebbe condotto in manicomio con lui. Grande poeta ma uomo malato ed egoista.
L’altro antico innamorato, l’etrusco Vincenzo Cardarelli ascoltava in silenzio e attonito la confessione del suo antico amore. Lui, poeta classico e uomo dal grande equilibrio nervoso non riusciva a comprendere il comportamento schizofrenico di un collega che tanto ammirava.

 

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

Commenta con Facebook