L’autobiografia dell’artista e scrittore boemo Alfred Kubin rivela una figura tanto visionaria quanto fragile esposta agli orrori del primo Novecento
«La sua breve autobiografia è la goticheggiante e paurosamente moderna confessione psichica di un figlio del tempo che trapassa verso l’era cosmica». Così Giacomo Debenedetti definisce Demoni e visioni notturne, l’intenso testamento spirituale di Alfred Kubin. L’oscuro manifesto di una generazione stilato da una personalità che ha ricercato la vita dall’altra parte, al di là della storia, guadagnandosi a meno di trent’anni l’appellativo di Traumkünstler (evocatore di sogni): «Osservare la mia propria vita onirica era appunto per me, che vi cercavo l’immagine, la cosa più terribile. Io vivevo tutto in questo spettrale mondo di sogno, che per molti non esiste affatto».
Alfred Kubin nasce a Leitmeritz il 10 aprile del 1877, trasferendosi precocemente prima a Salisburgo e subito dopo a Zell am See, un piccolo villaggio d’alta montagna che diviene il teatro della sua gioventù. Il padre Friedrich, un funzionario statale, gli impartisce una severa educazione fatta di rimproveri e bastonate. Dal canto suo Alfred, attratto dai paesaggi naturali e dalle creature fantastiche, respinge l’asfissiante circolo educativo casa-chiesa-scuola: «Nulla mi era e mi è tuttora più odioso della costrizione».
All’età di dieci anni la spensieratezza del bambino viene sopraffatta dalla morte della madre da tempo malata di tisi. Lo shock è profondo per le sue sorelle (Maria e Friederike), ma soprattutto per il padre che lo incomincia a picchiare sempre più violentemente e con meno motivazioni.
Progressivamente il piccolo Kubin, infamato dalla perfida balia della sorella più piccola (nata dalla seconda moglie), viene estromesso dalla famiglia: «Ma questo periodo di così amaro e completo abbandono si rivelò straordinariamente fecondo per la mia fantasia. L’abbandonarmi a fantastiche visioni di esplosioni e cataclismi primordiali mi aveva sempre dato una strana sensazione di gioia, e come un’ebbrezza, accompagnata da un brivido frizzante che mi correva per la spina dorsale».
L’adolescenza di Kubin è un periodo terrificante caratterizzato da umiliazioni familiari, fallimenti scolastici e lavorativi, seguito da un suicidio mancato e un tremendo esaurimento nervoso durante il servizio militare. A un passo dall’abisso Alfred viene riaccolto dal padre, mortificato per il suo comportamento, che nel 1898 acconsente a mandarlo a studiare all’Accademia di Belle Arti di Monaco dove ripercorre tutta l’opera di Max Klinger, Francisco Goya, Edvard Munch, James Ensor e Odilon Redon.
È l’inizio di un percorso di riabilitazione alla vita attraverso l’illustrazione e la pittura. Con la sua arte rappresenta opere di autori immortali (Poe, Dostoevskij, Kafka per citarne alcuni) e ne realizza di originali, derivate dalla vivida fantasia alimentata dalla passione per la filosofia (in particolare di Schopenhauer) e in grado di non farlo sprofondare nuovamente nel baratro:
Un nuovo fervore di vita continuamente ci spinge a utilizzare ogni nuovo giorno che sorge. E questo è forse l’ultimo vero significato dell’artista: gettare nella sua creazione un velo sull’assurdo nonsenso della vita, un sottile velo che copra l’abisso di forme caotiche, che per noi non sono assolutamente nulla in confronto a quel mondo «immaginato» che rappresenta la nostra verità, sia pur essa una pura illusione nell’eterno fluire del tempo.
Al pari di altre grandi personalità del primo Novecento, da Ernst Jünger a Giorgio de Chirico, Kubin ha riconosciuto e fronteggiato il grande gioco cosmico che attanaglia l’esistenza umana. Nel corso del tempo continua a soffrire, prima per la morte della tanto amata Emmy Bayer, poi per quella del padre, infine per la straziante malattia della moglie Hedwig.
È attraversato da crisi continue, tra cui quella radicale che lo conduce ad abbracciare il buddhismo, anche se solo per dieci giorni. Prende parte a diversi movimenti culturali, tra cui il Cavaliere Azzurro assieme a Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Paul Klee e molti altri.
Scrive e illustra il romanzo fantastico L’altra parte, rigetta la guerra, si rassegna alla vita: «Spero soprattutto di aver mostrato chiaramente come in fondo fosse sempre la stessa forza che nella fanciullezza mi portò ai sogni e alle monellerie, più tardi alla malattia, e infine all’arte». Muore a Zwickledt nel 1959, a ottantadue anni.