Troppo spesso, nel dibattito critico, è stato messo in gioco Walter Benjamin, autore del celeberrimo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: ciò che si tenta di capire è se un’opera, nella sua riproduzione, arrivi davvero a perdere la sua “aura”, quel hic et nunc richiamato nelle pagine del testo.
La riflessione sulla riproducibilità tecnica è stata ormai ampiamente criticata, discussa e talvolta addirittura ignorata con squisita indifferenza, per essere poi superata. Quando si riproduce un oggetto, sia nel suo rapporto forma-materia, sia nella creazione di una sua immagine, si polemizza chiedendosi se effettivamente l’osservatore stia guardando un’opera d’arte “originale” sebbene sia una riproduzione.
Oggi, però, ciò che importa maggiormente non è più riflettere sulla natura ontologica delle cose – sulla loro poiesis (poihsis), vale a dire, parafrasando Giorgio Agamben, sulla pro-duzione nella presenza [1], nonché produrre qualcosa che venisse in essere dal non-essere – ma sulla praxis, il lavoro. Da qui si potrebbe arrivare a dedurre che la produzione artistica, ormai radicata nell’attività creativa, sia ormai quasi una moglie devota della prassi. La riproducibilità tecnica, dunque, è diventata necessaria, come conseguenza immediata, per poter testimoniarne e documentare tale prassi.
Nel termine “riproducibile” è insita una possibilità che si realizza nella “riproduzione”, momento che implica una preesistenza. Come T.A.Z, non solo acronimo e titolo del saggio scritto dal filosofo statunitense Hakim Bey nel 1995, ma anche “riproduzione” e “ricostruzione” in scala 1:10 di uno spazio espositivo romano esistente – Spazio Y – sotto forma di modellino architettonico di 0,13 mq, format espositivo temporaneo, conclusosi lo scorso 13 marzo all’interno della GAM di Roma.
«Per il futuro solo chi è Autonomo, può progettare autonomia, organizzarla, crearla»[2], scrive Bey nel saggio, una frase certamente ispiratrice per T.A.Z 0,13 mq. Difatti, la ricostruzione di uno spazio, che vanta una programmazione decennale di mostre e attività artistiche, come una Zona Temporaneamente Autonoma, vuole eludere le logiche delle istituzioni formali, inserendo al suo interno opere d’arte site-specific di cinque artisti affiancati da altrettanti curatori emergenti. E come una matriosca, l’idea progettuale si stratifica.
Supponiamo che la GAM (Galleria d’Arte Moderna di Roma), istituzione museale romana storica, sia la “madre”, la mostra risiedente al suo interno – MATERIA NOVA– sia la “figlia maggiore”, e che T.A.Z 0,13 mq sia il periodo di “gestazione” necessario alla creazione di ulteriori opere. Un caso di riproduzione/ricostruzione, che non si limita a testimoniare una preesistenza ma che si fa esso stesso contenitore autonomo, è dunque quello creato dalla collaborazione tra quattro giovani curatori attivi sulla scena romana (Riccardo Piras, Ilaria Gioglia, Benedetta Monti, Davide Silvioli) e alcuni artisti emergenti (Marco Emanuele, Chiara Fantaccione, Andrea Frosolini, Bea Bonafini e Giulio Bensasson).
L’idea di gestazione è proposta da Untitled (Embryo), lavoro con cui Bea Bonafini si inserisce nel modellino, la riproduzione di Spazio Y, la quale, a sua volta, funge al contempo da contenitore e contenuto. L’opera in ceramica dell’artista romana, dalle fattezze organiche apparenti, sembra espandersi ed evolversi lentamente all’interno di un’incubatrice, ingannando l’occhio per la sua materialità illusoria, seguendo un canto melodico, riprodotto all’interno di T.A.Z 0,13 mq.
Come un embrione, che terminato il suo periodo di gestazione è pronto a essere “adatto a…”, in cui è insito una dunamis, una potenzialità, così nell’opera d’arte è insita la volontà di potenza. Tale idea di possibilità viene accentuata, come un crescendo, dalla volontà da parte degli artisti di inserire nelle loro opere un principio di contraddittorietà, espressa mediante la compresenza di due materiali dissimili e/o di illusione percettiva.
Se l’opera di Bonafini, proprio servendosi di TAZ, viene percepita «come un’installazione imponente all’interno di una galleria senza coordinate esplicite», come sottolinea la curatrice Benedetta Monti, diversamente nell’opera Rovina di Giulio Bensasson due concetti contraddittori fra loro diventano espediente unico per tentare, in autonomia, di ingannare il principio di temporaneità proprio non solo del contenitore ma anche della sua stessa natura ontologica. Rovina pone agli occhi dello spettatore la compresenza di due elementi, la materia organica, propria della composizione floreale che Bensasson realizza in site specific, e il materiale artificiale, il vetro temperato, il quale, riposto di fronte a essa, tenta quasi di proteggerla, parafrasando il curatore Davide Silvioli, dall’impermanenza della caducità insita della sua natura con l’eternità dell’archetipo.
Se «nello stilleven le cose vengono mostrate al loro toppunt, ossia nel loro momento della loro perfetta maturità, del pieno dispiegarsi delle loro qualità: allo zenit, prima del loro inevitabile corrompersi» [3] e rese eterne proprio grazie al medium pittorico, Bensasson sottolinea l’effimero della sua opera quasi accettando il suo decomporsi, sebbene la materialità del vetro tenti di rallentarne il processo. Le opere di Bonafini e Bensasson, non solo nella loro composizione formale ma anche nel loro essere poietiche, rispondo alla volontà dell’embrione di uscire dalla sua fase gestazionale, ragionamento non dissimile dalla genesi dell’interno progetto curatoriale.
In T.A.Z 0,13 mq è insito il valore di potenzialità, presente nella riproduzione formale di uno spazio preesistente concepito per essere elemento che ne genera uno successivo, esprimendo una volontà creatrice propria delle opere realizzate al suo interno e diventando esso stesso un’opera d’arte che partorisce sé stessa. Il modellino, situato al di sopra di un piedistallo, isolato e inserito in un contesto espositivo preesistente, rivendica la sua autonomia nella sua temporaneità che si relaziona alla temporalità dell’opera d’arte stessa. Questa, difatti, proprio a causa dell’ineluttabile provvisorietà del suo contenitore, si auto-crea ma cessa immediatamente di essere una volta smontata. Destino crudele quello delle opere al suo interno che, sebbene siano desiderose di staccarsi dalla madre generatrice, risultano comunque legate a essa proprio nella loro prassi.
Questo contenuto è stato realizzato da Giulia Pontoriero per Forme Uniche.
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Note
1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, pp.104-105, Quodlibet, 1994, Macerata.
2 H. Bey, T.A. Z The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy. Poetic Terrorismi, pp.16, Shake Edizioni 1995,Milano.