Eccomi di ritorno dal Rally della Laguna dove, con sprezzo del pericolo, ho sfidato freddo, intemperie e interminabili code per quasi tutto, dai servizi come al solito insufficienti, poco intrattenuti e ancora divisi per genere, ai disperati tentativi di approvvigionamento cibo, scarso e mal organizzato.
Fatti non fummo a viver come bruti… ma strafatti per vedere la Biennale 59, sì. Nessuna sorpresa, segue a ruota la Biennale di Architettura e si inserisce nel medesimo solco. L’asticella dell’avversione verso l’uomo bianco si alza sempre più, come vi ho già più volte raccontato e questa edizione della Biennale Arte a questo proposito non si fa mancare nulla. Il desiderio di riscrivere la storia umana e costruire un presente risarcitorio nei confronti di minoranze o presunte tali, per poi prefigurare e auspicare un futuro dove magari un salto di specie possa imprimere una metamorfosi umana, come nei racconti orrifici della Carrigton, si configura ormai come una vera e propria ideologia con la quale dovremmo fare i conti.
Quasi gli stessi gli angosciosi quesiti che vengono posti dalla curatrice Cecilia Alemani al povero smarrito visitatore post umano: “Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’umano e il non-umano? Quali sono le responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abbiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? Ai quali fanno eco le dichiarazioni del Presidente Roberto Cicutto: “la mostra prede le distanze dall’antropocentrismo (ormai è una fissa n.d.r.) si configurano nuove alleanze generate dal dialogo fra esseri diversi, alcuni forse prodotti da macchine, con tutti gli elementi naturali che il nostro pianeta (forse anche quelli di altri) ci presenta”. Molto, molto bene!
Eccoci dunque tutti attaccati alle mammelle a bere il Latte dei Sogni – maledizione, ho detto mammelle e non genitorielle uno o pappelle – ad abbeverarci alla fonte sapienzale della Biennale 59.
Un viaggio dal profumo moralizzatore quacchero proveniente dagli States le cui spore ormai da tempo si spandono sull’Occidente Nostro sempre più disastrato e in avida ricerca di qualche fonte di vita che ridia senso a quello che senso non ha più e che si aggrappa a qualche nemico reale e occasionale, sia essa la pandemia, l’emergenza ambientale o il Mad Vlad di turno, per rinsaldare le fila. Gli interrogativi posti vanno oltre la cancel culture e i bigottismi del politically correct per approdare direttamente all’estinzione dell’uomo bianco, augh! Non a caso i riferimenti culturali della nostra simpatica curatrice sono, tra gli altri, la scrittrice e giornalista del New Yorker Elizabeth Kolbert che con La sesta estinzione ha sbancato guadagnandosi un bel Premio Pulizer e la professoressa italo australiana Rosi Braidotti, vetero marxista e teorica del post umanesimo.
Queste dunque le premesse culturali a sostegno della mostra che a partire dal Padiglione Centrale ai Giardini si dipana poi alle Corderie e nel vasto complesso dell’Arsenale. Se ai Giardini, prescindendo dalle chiavi di lettura, il progetto regge, più per merito delle lodevoli “riscoperte” e delle “capsule del tempo”, sorta di storiche wunderkammer dal sapore gionesco, il cui scopo è di assicurargli una dignità culturale, che per la selezione delle new entry invitate e chiamate a rispondere agli interrogativi della curatrice, all’Arsenale, dove, pur applicando lo stresso schema, il progetto crolla nella bulimica proposta artistica che in non pochi casi è di una debolezza sconcertante benchè sorretta da schede esplicative degne della migliore scuola sofista, riuscendo con la narrazione ad attribuire un qualche significato al niente. Vabbè che siamo nell’era del metaverso e della meta narrazione, ma ancora un barlume di vita reale esiste e purtroppo, in questo caso, si vede. Di seguito una piccola selezione di immagini e testi che credo possano restituire meglio il senso di quanto vi ho detto.
Una precisazione però mi tocca farla, non fidatevi di me, molti degli artisti presentati presto saranno fagocitati dall’art system e a breve potrebbero divenire delle piccole o forse grandi star. La parabola di Miriam Cahn, per esempio, artista fino a poco tempo fa marginale e dalle quotazioni irrisorie che pratica una sguaiata bad painting erotico femminista, in breve tempo ha guadagnato la discreta attenzione dei più avveduti, le sue quotazioni sono balzate in alto ed ora le sua opere sono felicemente appese alle pareti della Biennale e, siatene certi, è sicuramente già introvabile e carissima. Occhio quindi, come insegna Max Weber, sotto l’etica protestante si nasconde lo spirito animal capitalista.
Proseguendo come dei bravi pellegrini lungo il Cammino dei Giardini alla scoperta dei Padiglioni Nazionali i migliori mi paiono la Spagna dove Ignasi Aballí presenta un sofisticato intervento concettuale sull’edificio, il Belgio con The nature of game, video di Francis Alys dedicato ai bambini delle zone più disastrate del pianeta, la Francia con Zineb Sedira, artista franco algerina che affronta con eleganza i temi un po’ scontanti sul post colonialismo, infine tra i peggiori la Germania che continua imperterrita a presentare artisti specialisti nella demolizione del padiglione come appunto pratica Maria Eichorn, infine un’attenzione particolare merita il Padiglione USA trasformato in una capanna dello zio Tom per ospitare Simone Leigh, mediocre artista rappresentatissima in questa Biennale e beneficiata del Leone d’Oro in quota minoranza oppressa made in USA, aioh!
Eccoci giunti alla fine del lungo pellegrinaggio dove ricche signore e signori, sfaccendati vari come me, sono in paziente e religiosa attesa per entrare nel Padiglione Italiano dove si accende uno alla volta e in assoluto silenzio, come raccomanda la gentile hostess, perché l’esperienza, di questo si tratta, richiede la massima concentrazione. Con il leopardiano (sic) progetto Storia della notte, Destino delle Comete, Gian Maria Tosatti si avventura con audacia e sprezzo del pericolo nell’impervio compito di raccontarci perché l’Italia fa schifo e come lui pensa si possa rimediare poeticamente al disastro. Infatti secondo il nostro poeta “il Padiglione Italia incarna la sofferenza di un paese che non ha nutrito i desideri di sviluppo con latte di qualità (!), ma bensì li ha disattesi…” Quindi il nostro eroe ricostruisce paro paro, filologicamente una piccola azienda, metafora del fallimento, con tutti i macchinari resi ormai stranianti fantasmi inutili per poi condurci verso un destino di speranza, il Destino delle Comete, esortandoci ad affrontare il presente da una prospettiva nuova che lucciole di pasoliniana memoria – darei l’intera Montedison per una lucciola – lasciano intravvedere in fondo ad un mare ricostruito nell’ultima sala. Le lucciole sono scomparse e la Montedison pure, amen!
Last but not least un poco di latte avariato deve averlo bevuto anche il nostro Rappresentante di Lista. Nato nel 1980, ha fatto in tempo a godere della ricchezza prodotta dalla piccola industria che ha reso grande l’Italia e gli ha permesso di coltivare il suo Ego e le lucciole che ha in testa.
Ciao, ciao, con le mani, con il culo, ciao ciao
L.d.R.