Vincenzo Latronico, scrittore e traduttore romano, torna alla narrativa con Le perfezioni, edito, come tutti i suoi tre precedenti libri, dalla casa editrice Bompiani.
Il nuovo romanzo di Vincenzo Latronico nasce come un omaggio dichiarato a Le Cose di Georges Perec, con il fine di riaggiornarlo alla contemporaneità attuale. Protagonista è la coppia – quasi inscindibile – formata da Anna e Tom, due giovani “creativi digitali”, trasferitesi a Berlino. Non importa quale sia la città di provenienza, non importa che sia Berlino – in realtà potrebbe essere anche New York o Stoccolma – ciò che Latronico mette in scena è la crisi, latente, della nuova generazione dei millenials, cresciuta insieme alla diffusione delle immagini sui social network. Immagini che li circondano e che entrano a far parte, anch’esse, della realtà tangibile.
In alcuni aspetti, soprattutto nella forte freddezza e nel marcato distacco narrativo, Le perfezioni appare più vicino a un saggio che a un romanzo. Per esempio, sono del tutto assenti i dialoghi tra i personaggi. Cosa ci dici riguardo a ciò?
È verissimo, e in qualche modo deliberato. Senza che sappia davvero spiegare perché, da qualche anno provo una certa sfiducia nei confronti della mia scrittura narrativa – mi annoia, mi interessa relativamente poco, mi suona cava, falsa (questo, ovviamente, non vale per la narrativa che leggo). Ciò non significa che non senta il bisogno di invenzione letteraria, ma che vorrei trovare un modo di esprimerla che non mi obblighi a tutta una serie di dispositivi stilistici della scrittura narrativa (le scene, i dialoghi, le persone che si alzano dalle sedie). Per molto tempo ho cercato una forma che si adattasse a questo mio desiderio – una specie, per dir così, di falso saggio. Ne ho trovato un modello in Le cose.
Quanto è stato difficile scrivere dei social network, e dei meccanismi che vi sono dietro, dal momento che sono una tematica poco presente, o in grande parte assente, nella letteratura contemporanea? Quanto è contradditorio questo fatto: nonostante i social network innervino la nostra quotidianità, tuttavia, è come se ci fosse una sorta di vergogna a parlarne…
Di sicuro c’è una specie di reticenza, un silenzio: poi non sono certo che dipenda unicamente da vergogna. La parte digitale delle nostre vite è proprio qualcosa che il romanzo non è ancora riuscito a impugnare, e che ha alcune caratteristiche che mal gli si adattano come mezzo: su tutte il rapidissimo succedersi dei marchi (chi sa oggi cosa fossero i Blackberry di cui parlava un mio romanzo di dieci anni fa? Chi lo saprà fra vent’anni?) e l’immediatezza di accesso a qualunque informazione, che si traduce in una scomparsa del mistero. E il mistero, qualcosa di ignoto, è uno dei meccanismi centrali del romanzesco.
Io in qualche modo ho trovato un escamotage: non parlo davvero molto dei social network o delle tecnologie, ma parlo delle emozioni e dei pensieri e dei comportamenti che il loro uso suscita nei miei personaggi (in noi, in me). E questo – emozioni, pensieri, comportamenti – è qualcosa che il romanzo sa gestire. Per questo preferisco parlare di “parte digitale delle nostre vite”.
La nascita di nuovi termini è necessaria dal momento che la realtà evolve. Come chiamare le nuove emozioni che proviamo, e che non hanno ancora nome, come ricaricare la pagina del proprio account social e seguire l’accumularsi di likes?
Bella domanda! Non lo so – non sono neppure sicuro che ciò che serve sia una serie di neologismi. Forse è solo opportuno, appunto, cominciare davvero a considerare tutto questo come parte delle nostre vite, a osservarlo come osserviamo, chessò, i rapporti d’amore.
Interessante e suggestivo l’uso di diversi tempi verbali in ciascun capitolo del libro. È anche questo un omaggio, riaggiornato, a Perec?
In origine è nato così, ma poi, in qualche modo, lo ha superato (senza alcun merito da parte mia). E cioè: già Le cose era suddiviso, come il mio romanzo, in vari tempi verbali; ma questa scansione, in italiano, ha creato un livello di significato in più: perché la parte all’imperfetto parla, letteralmente, delle imperfezioni della vita di Anna e Tom; e la parte al remoto del lavoro da remoto. È una circostanza imprevista ma molto felice, scrivendo ci ho visto una sorta di presagio.
Cosa sono Anna e Tom senza essere Anna e Tom?
Mi rendo conto che in qualche modo si tratta di personaggi atipici. Li ho caratterizzati in modo molto preciso come coppia – cioè, ho raccontato i tratti e le esperienze e i valori che li distinguono dal resto del mondo e fanno di loro ciò che sono: li ho identificati – senza però fornire nulla, a parte i nomi e pochissimi dettagli, che permetta di distinguere fra di loro, cioè di identificarli come individui. Anche per questo, ad esempio, non ci sono dialoghi, e per questo ho cercato di ridurre al minimo il racconto di litigi o divergenze che avrebbero giocoforza richiesto di caratterizzarli per contrasto. Si trattava, per me, di un espediente di economia narrativa – avrei avuto bisogno di molta più trama per definirli, e questo sarebbe andato contro alla concentrazione a cui tenevo.