Divorzio di velluto, edito da Feltrinelli e tra i 12 candidati al Premio Strega 2022, è il romanzo d’esordio di Jana Karšaiová, che intreccia le vicende della protagonista Katarìna con quelle del Paese in cui è nata, la Slovacchia
Durante le vacanze natalizie, Katarìna, che abita e lavora a Praga, torna a casa a Bratislava a trovare i genitori, una coppia ormai anziana che colma con il silenzio – nel caso del padre – o con le parole urlate – nel caso della madre – l’assenza della figlia maggiore, Dora, che è scappata dal clima opprimente della famiglia, e del Paese in cui viveva, alla volta degli Stati Uniti.
Katarìna, la figlia minore, ha sempre vissuto la fuga di Dora come un abbandono, una volontà di separazione dalla propria famiglia, e in primis, da lei, la “sorella cattiva”. Come Dora, anche Viera, l’amica più cara di Katarìna, ha lasciato Bratislava, trasferendosi in Italia. Dora e Viera sono due giovani donne che non riescono ad abituarsi a ciò che il loro Paese, la Slovacchia, richiede ai suoi cittadini: camminare a testa bassa.
Quand’è che Katarìna capisce cosa c’è, veramente, sotto alla fuga della sorella e della sua amica? Quando è lei stessa ad andarsene.
A volte, abbandonare la propria casa, staccarsi dalle proprie radici, diventa l’unico modo per andare avanti.
È stato così anche per te? In un certo senso sì.
Ferita interiormente, Katarìna addossa al marito, Eugen, il compito di guarire le proprie cicatrici. Capisce, però, quanto sia stata infantile ad aspettarsi che un’altra persona potesse curare la sua anima “bucherellata”. Che cosa porta Katarìna a questa consapevolezza? Quando questa sua strategia non funziona, e lei è messa davanti a un vuoto che è soltanto suo. E lì che capisce che solo guardando e riconoscendo le ferite che si porta dentro, ne potrà guarire.
Centrale è il tema della lingua che si condensa tutto nella conversazione tra Viera, che ha vinto una borsa di studio in Italia, e il professore di glottodidattica dell’Università di Verona. Viera afferma, infatti, di voler smentire la relatività linguistica, ovvero la tesi secondo cui il modo in ci si osserva il mondo è determinato totalmente, o in parte, dalla struttura della propria lingua madre. Qual è la critica apportata da Viera? Viera vuole vivere, vivere libera. L’italiano è la chiave per questa libertà, lei deve smentire la relatività linguistica, deve almeno crederci di poterlo fare, altrimenti sarebbe stata per sempre condannata a essere chi non vuole essere.
Sentirsi stranieri a causa della lingua parlata, che ti etichetta come “diversa”. Come hai vissuto il trasferimento in Italia? Con entusiasmo, io sono venuta in Italia per l’amore e mi sono innamorata del paese e della sua lingua. Poi ho affrontato anche le situazioni “da straniera” che mi hanno permesso di sentirmi a casa fra i “diversi”.
Perché hai deciso di scrivere il tuo primo romanzo in italiano, e non nella tua lingua madre, lo slovacco? La lingua italiana ti ha permesso di esprimere, in maniera più vera e libera, la tua condizione esistenziale? Scrivo in italiano perché vivo in Italia, la lingua italiana, dopo anni di vita vissuta qui, mi rispecchia meglio. In più sì, mi dà una libertà di pensiero sradicato, mi toglie dal condizionamento della mia lingua di partenza. È più difficile scrivere in italiano però, è una sfida che mi fa ricordare, per assenza, chi sono in ogni momento.
L’hai sentito, in qualche modo, come un tradimento nei confronti del tuo Paese? Convivo con i sensi di colpa di aver tradito le mie origini. È tuttora una questione irrisolta in me, ai miei figli non parlo lo slovacco, è un tema che mi ossessiona.
Qual è il primo libro che hai letto in italiano? La coscienza di Zeno di Italo Svevo.