Dicono che sia arrivata finalmente la primavera. Siamo in piena Art Week e Milano con il sole non è neanche poi così male. Tra meno di mezz’ora inizierà la performance di Lorenzo Montinaro, classe 1997, sangue tarantino. Dal mese di Gennaio è stato scelto tra gli artisti ospitati nella residenza di Via Farini, celebre organizzazione milanese, che da molti anni è diventata uno dei cosiddetti “passaggi obbligati” per coloro che vogliono diventare artisti professionisti. In Via Carlo Farini al civico 35, tra un kebabbaro e una lavanderia si trova l’ingresso di uno dei due spazi della residenza artistica. Superato un imponente portale ligneo si accede a una piccola corte interna, sulla quale si affacciano i ballatoi e tutti gli appartamenti delle case sovrastanti. Lì fuori, si sono creati vari gruppetti di persone, probabilmente amici, collezionisti o semplicemente dei curiosi che come me hanno deciso di andare a vedere il lavoro di quegli artisti. C’è chi fuma una sigaretta o chi beve del vino di bassa qualità in un bicchiere di plastica: si respira una bella atmosfera, un momento di convivialità.
Da una porta a vetri si accede agli atelier degli artisti, che per l’occasione sono stati trasformati in tanti angoli espositivi. La performance è stata organizzata in occasione dell’open studio, quindi lo spazio che solitamente è riservato al lavoro, ai pennelli, ai colori a olio e a tutti gli altri strumenti della creazione, questa sera è stato “pettinato” per mostrare al meglio le opere d’arte create dagli artisti in questi mesi.
Nella sala più grande della residenza intravedo Lorenzo, mi saluta, non sembra essere teso per quello che andrà a fare di li a poco. Mi ha accennato qualcosa quando mi ha scritto per invitarmi, ma non so bene cosa aspettarmi. Accanto a lui c’è Jacopo Benassi, famoso artista contemporaneo, fotografo, performer, all’apparenza rude, ma per quanto mi racconta Lorenzo, è una persona dotata di grande sensibilità. La performance l’hanno pensata insieme e insieme la realizzeranno.
Lorenzo si toglie la maglia e restando in piedi si appoggia alla parete bianca, vicino ai suoi lavori esposti. La schiena è rivolta verso di noi, Benassi indossa dei guanti in lattice neri e impugna una macchina per tatuaggi. Ci sono due microfoni, uno è stato attaccato alla mano di Jacopo Benassi e l’altro alla bocca di Lorenzo. Il primo serve per amplificare il rumore metallico tipico di un salone di un tatuatore, il secondo invece per registrare i lamenti che usciranno dalla bocca del giovane artista. Le persone formano un semicerchio. Cade il silenzio. La performance ha inizio.
Jacopo Benassi, che non ha alcuna esperienza come tatuatore inizia a incidere sulla schiena di Lorenzo delle lettere, sono nomi e cognomi di individui deceduti nel comune di Milano, negli stessi mesi in cui lui ha lavorato nella Residenza di Via Farini. Sono nomi trovati su manifesti funebri, che Lorenzo ha incontrato casualmente vagando tra le vie della città. A Milano l’affissione dei necrologi è concessa solo sulla parete esterna dell’abitazione del defunto, in ogni altro luogo sarebbe illegale. La casualità di quegli incontri ha portato Lorenzo a sfiorare l’intimità domestica di quegli sconosciuti. Dopo la performance mi racconterà che il manifesto funebre in Puglia ha un altro valore e il suo utilizzo è totalmente diverso. Questo suo percorso artistico è da considerarsi come una continua ricerca delle sue origini lontano dai luoghi della sua nascita. La volontà è quella di ritrovare una situazione intima e domestica ovunque si trovi e questo lo notiamo anche quando ci si trova immersi nel suo spazio espositivo all’interno della residenza. Si comprende, quindi, come il tatuaggio diventi solo la resa finale di un percorso personale, fisico ed emotivo che l’artista ha intrapreso ormai da molti anni.
Con la performance la volontà è quella di sfidare l’inesorabilità della morte, non solo quella degli sconosciuti, che da ora in avanti porterà sulla sua pelle, ma anche quella del suo stesso corpo, che ha provato a trasformare in un monumento immortale dell’eternità. La performance rappresenta il momento più efferato del percorso artistico di Lorenzo, una ricerca, la sua, che mira a indagare i concetti di esistenza e di morte. Con la sua pratica artistica ci ricorda come vita e morte siano due facce della stessa medaglia. Sembra un ragionamento scontato, ma non lo è, perché durante la nostra quotidianità questa consapevolezza tende a svanire e ci stupiamo quando la vita di chi ci circonda improvvisamente si interrompe. Il lavoro di Lorenzo, invece, ci permette di comprendere come la morte sia sempre lì, accanto a noi, dal momento della nostra nascita. Il parto è la prima e vera condanna a morte di ogni individuo, da quell’istante il nostro corpo cresce, si rinnova e inizia il suo percorso verso la sua stessa fine. Lorenzo ce lo spiega con la sua opera Autoritratto, un’urna cineraria in bronzo, sostenuta da una antica colonnina in marmo, dove al suo interno l’artista pone le sue ceneri. Queste sono il risultato della frantumazione di ceri recuperati in giro da alcune chiese. Le ceneri all’interno dell’urna pesano precisamente 3,370 kg, il peso del corpo dell’artista appena nato. Morte e vita convivono nel nostro corpo dal primo nostro respiro. In tutto questo però non ci deve essere malinconia, la capacità di Lorenzo è anche quella di normalizzare la morte e di ricondurla a una dimensione di ordinarietà, tipica di qualsiasi altro tema.
Un misto tra sangue e inchiostro nero sporca la schiena di Lorenzo. La pelle è arrossita, la mano di Jacopo Benassi calca una lettera dopo l’altra. Qualche lamento esce dalla bocca di Lorenzo, sono per lo più sospiri che ci rivelano la fatica di sopportare quel gesto.
La performance già nel suo titolo, Monumento, lascia intravedere la volontà dell’artista, che si vuole rendere portatore del peso di quelle esistenze, che senza di lui rischierebbero l’oblio. Il risultato finale della performance è un’opera di poesia visiva sulla pelle viva dell’artista, una tela umana pronta ad accogliere il ricordo di chi non c’è più. Oltre alla volontarietà di conservare la memoria di quegli estranei, i nomi simboleggiano la forza creativa e vitale dell’artista: la morte è il terreno fertile per la rinascita. La distruzione e la fine di qualcosa significa necessariamente “nuovo inizio”. La morte di quelle persone entra in contrasto con il sangue vivo della sua schiena. L’unione tra vita e morte si rafforza in un rapporto crudele, ma sincero. Ed è proprio mentre osservo questa performance che mi torna in mente una riflessione che Lorenzo mi aveva fatto, qualche tempo fa. Aveva citato Alberto Burri e di come questo artista con la sua opera, Ilgrande cretto, ci avesse insegnato che la distruzione, la morte e la perdita non siano altro che il principio di un processo assai più vasto, che oscilla tra la fine e l’infinito. «Burri non esorcizza la morte e il morire, anzi, ci insegna ad accoglierla, accettarla rendendola più vera e presente di quanto già non sia»– afferma Lorenzo.
La disposizione delle opere nel suo angolo espositivo, all’interno della Residenza di Via Farini, non segue solo dei canoni estetici, ma c’è la volontà di ricreare un ambiente domestico. Quello spazio diventa una casa fatta di morte, una morte altrui, che però inevitabilmente si trasforma in un luogo di vita: entrando al suo interno si percepisce la scomparsa di quelle persone e d’istinto non si può far altro che sentirsi pienamente vivi.
«Fin da piccolo sono sempre staro incuriosito da quello che c’è oltre la morte.»– racconta Lorenzo – «La curiosità si è trasformata in timore quando nel giro di un anno morirono i miei nonni paterni e mio zio. Lì ho capito che coloro che mi stavano intorno, i miei cari, non erano eterni. Come non ero eterno io. La paura mi ha dilaniato per anni e a volte ritorna ancora. C’è da dire che sono nato a Taranto, dove ho perso da quando sono piccolo miei coetanei, amici e conoscenti per tumori incurabili anche nel giro di una settimana. La morte l’ho sempre vista come un’ombra.»
È tramite le sue opere che da quell’ombra riesce a emergere, mettendo in luce quello che sembra essere passato e dimenticato. La volontà di Lorenzo è quella di rivelare la carica vitale di ciò che osserva, senza mai dimenticarsi della morte, una presenza che c’è e che si può percepire in penombra. Le opere di Lorenzo, all’apparenza sembrano sempre parlare di altri, perlopiù di sconosciuti, ma in realtà hanno tutte la capacità di rivelarci un’aspetto dell’artista stesso.
Lì esposta c’è un’opera che mi colpisce particolarmente, si intitola Ciao amore ciao.
Una mensola in ottone sorregge la riproduzione fedele della pistola tedesca Walther PPK, quello stesso modello con cui il cantautore Luigi Tenco si suicidò nel 1967. L’arma è completamente avvolta da un nastro magnetico, che la ricopre interamente, rivelando solo la fisionomia dell’oggetto. Lorenzo ha inciso sul quel nastro la propria voce mentre canta Ciao amore, ciao, l’ultimo brano cantato da Luigi Tenco al XVII Festival di Sanremo poco prima di suicidarsi nella stanza 219 dell’Hotel Savoy.
Il cane della pistola è abbassato, l’arma è pronta a esplodere il colpo, ma è l’abbraccio del nastro a sospendere tutta l’azione. La pistola è rivolta verso chi osserva, è alla stessa altezza del torace e da quella distanza il colpo sarebbe letale. Quello che potrebbe sembrare il monumento o il ritratto di Luigi Tenco, diventa lo specchio in cui ognuno di noi può riconoscersi.
Non c’è mai una netta separazione tra noi e gli altri nelle opere di Lorenzo Montinaro, uno spirito collettivo pervade ogni suo lavoro, mostrandoci come la precarietà della nostra esistenza è l’unico vero elemento di unione di tutti noi.
La poetica di Lorenzo può sembrare crudele, e certe volte lo è. La sua è una sincerità profonda con cui celebra la vita. Quello che mi colpisce delle sue opere è la loro maturità e la pulizia estetica con cui vengono presentate al pubblico. Ogni suo lavoro è un nucleo autonomo che si inserisce perfettamente nella narrazione collettiva della sua ricerca artistica. Per noi Lorenzo Montinaro è sicuramente un “sorvegliato speciale”.