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Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli

Caravaggio (Michelangelo Merisi), Flagellazione di Cristo, 1607 olio su tavola
Napoli, chiesa di San Domenico Maggiore, proprietà Ministero dell’Interno, Fondo Edifici di Culto (in temporanea consegna dal 1972)

La mostra Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli, prosegue fino 7 gennaio 2023 al Museo e Real Bosco di Capodimonte. In esposizione 200 opere provenienti tutte dalle collezioni permanenti del museo

 

Il Seicento napoletano è una “invenzione” recente. È stato riscoperto e definito dallo storico dell’arte Roberto Longhi (1890-1970). Secondo lo studioso, il naturalismo di Michelangelo Merisi (1571-1610), detto il Caravaggio, sarebbe la spina dorsale dell’arte napoletana. Sulla base degli studi degli ultimi decenni, lo schema di Longhi, ormai ampiamente storicizzato, è rielaborato secondo un’altra prospettiva: quella del pittore Jusepe de Ribera (1591-1652), uno spagnolo arrivato nel capoluogo campano nel 1616, sei anni dopo la morte dell’artista lombardo. Tali riflessioni trovano una corrispondenza concreta e visiva nella mostra allestita nelle sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli, dal titolo Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli, curata da Stefano Causa e Patrizia Piscitello, fino 7 gennaio 2023. In esposizione 200 opere provenienti tutte dalle collezioni permanenti del museo, senza prestiti esterni, che si sviluppa nelle 24 sale al secondo piano e divise per tema o per autore.

Foto Benestante

Napoli era una grande città portuale. Nel XVII secolo era diventata una delle megalopoli più popolose del mondo esercitando una profonda influenza sulla cultura europea. La sua storia si presenta come una ricca stratigrafia, fatta di diverse civiltà, popoli e creatività che hanno lasciato tracce nel patrimonio artistico e monumentale. Per secoli ha subito attacchi, invasioni e distruzioni, facendo fronte a numerose catastrofi naturali: eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti e pestilenze. In quest’ottica si può spiegare il ruolo centrale che hanno gli artisti lombardi, emiliani, bergamaschi, romani, francesi, spagnoli e belgi in questa esposizione dedicata al XVII e al XVIII secolo. Gli artisti napoletani si ispirarono alle nuove soluzioni stilistiche, rielaborando in maniera del tutto personale, iconografie, tagli compositivi e utilizzo delle luci.

 

LA NAPOLI DI INIZIO SECOLO

Ad accogliere i visitatori sono le opere dei primi anni del Seicento, dove si assiste ad una produzione pittorica molto variegata, difficilmente racchiudibile nella definizione di “tardo manierismo”. Prima dell’arrivo del Caravaggio (1571-1610) dominavano in città pittori ad affresco, imprenditori e scopritori di talenti, come Belisario Corenzio (1558-1646[?]), con cui si formò il giovane Battistello Caracciolo (1578-1635), presente in mostra con il Cristo alla colonna del 1620 e messo in correlazione con la Flagellazione del Merisi (1571-1610) del 1607. Spicca tra tutti, uno dei grandi maestri della seconda metà del 1500 come Francesco Curia (1538-1608), la cui Annunciazione del 1597, è messa a confronto con quella di Scipione Pulzone da Gaeta (1544 ca-1598), del 1587, e con l’altra di Louis Finson (1580-1617), datata 1612.

 

NAPOLI CROCEVIA DI CULTURE

L’arte napoletana ebbe un grande impulso grazie alle committenze ecclesiastiche e dei privati che rinnovarono e arricchirono le cappelle di famiglia. La struttura architettonica ad aula unica della seconda sala, scandita da ambienti laterali simili a cappellette, ben si adatta ad accogliere le opere: il ciborio di Cosimo Fanzago (1591-1678) in bronzo dorato, rame, marmi policromi e pietre dure, (diaspri, ametista, agata e lapislazzuli) proviene dalla chiesa di Santa Patrizia a Napoli. Il monumentale tabernacolo è una vera e propria architettura in miniatura, impreziosita dalla tecnica del commesso marmoreo che imita tralci vegetali, vasi con fiori e uccellini. Quest’opera costò l’ingente cifra di 5000 ducati al monastero. 

Il naturalismo di stretta influenza caravaggesca comincia pian piano negli anni a stemperarsi. Spingono in questa direzione i lavori del francese Simon Vouet (1590-1649), che invia a Napoli la Circoncisione per la chiesa di Sant’Angelo a Segno, che dialoga in sala, con la Madonna col Bambino con le sante Maria Egiziaca e Margherita di Giovanni Lanfranco (1582- 1647). Le influenze romane tendono sempre di più ad infittirsi: lo testimoniano le opere di Massimo Stanzione (1585-1656), che è a conoscenza dei capolavori romani di maestri bolognesi come Guido Reni (1575 –1642) e di Domenico Zampieri detto il Domenichino (1581-1641). Quest’ultimo a Napoli lascerà nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, dipinti su rame e affreschi, che aveva realizzato nel 1615 per la chiesa di San Francesco a Palermo, tra cui l’Angelo custode.

Simon Vouet, Circoncisione, 1620 ca.
olio su tela
Napoli, Chiesa di Sant’Angelo a Segno (in temporanea consegna dal 1977)

 

RIBERA E IL PRIMATO DELLO STILE

Il Seicento napoletano è identificato come il secolo di Caravaggio (1571-1610), che soggiornò a Napoli due volte (ottobre 1606-giugno 1607 e ottobre 1609-inizi luglio 1610, per un totale di 18 mesi), mentre Jusepe de Ribera (1591-1652), vi arrivò nel 1616 e lo scultore e architetto Cosimo Fanzago (1591-1678) nel 1608, stabilendosi entrambi in città fino alla morte. I due artisti sono personalità cruciali per gli sviluppi della cultura figurativa nel Viceregno, per la loro presenza stabile sul territorio e la formazione di botteghe. Lo stile di Ribera (1591-1652) si evolve verso un recupero di Tiziano (1488/1490–1576), con ampie stesure di colore e paesaggi luminosi che fanno da sfondo ai personaggi raffigurati, influenzando tutti i pittori napoletani della sua e delle generazioni successive. Sono esposti la sua famosa Natura morta con testa di caprone, 1645-1649 ca. e l’Eterno Padre, 1626-1630, proveniente dalla chiesa della Santissima Trinità delle Monache a Napoli. Un altro capolavoro è il San Girolamo e l’angelo del Giudizio, del 1626, proveniente sempre dalla omonima chiesa. In questo dipinto, sul lato destro l’inserto del teschio, del volume e delle carte, conferma il talento dell’artista spagnolo nel dipingere nature morte, mentre un leone emerge dall’ombra sulla sinistra.

Jusepe de Ribera, San Girolamo e l’angelo del Gudizio, 1626
olio su tela
Collezione Borbone
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

IL TRIONFO DI BACCO

Tra il 1620 e il 1630, iniziò tra i pittori napoletani, un progressivo recupero delle iconografie e dei cromatismi del Cinquecento di Tiziano (1488/1490–1576), come si nota nel confronto tra il Sileno Ebbro, del 1626, di Ribera (1591- 1652), e il Trionfo di Bacco, di Francesco Fracanzano (1612 – 1656), databile nel corso degli anni ‘30. Il Sileno ebbro, raffigura un seguace di Dioniso, dio del vino, mentre alza la coppa per accettare altro vino dalla figura alle sue spalle, mentre Pan, dio della natura selvaggia, lo incorona con delle viti. L’asino che raglia e l’ambientazione rustica accentuano, ai limiti della caricatura, il ricordo dei baccanali di Tiziano (1488/1490–1576). L’artista ha posto la sua firma sul cartiglio in basso a sinistra strappato dal serpente, simbolo di immortalità. A questi due capolavori si accosta una copia, forse ottocentesca, del dipinto dei Borrachos di Diego Velázquez (1559-1660), oggi al Museo del Prado a Madrid.

Jusepe de Ribera, Sileno Ebbro, 1626 olio su tela
Collezione Borbone
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

PURISMI NOSTRI

A Napoli, il bolognese Domenichino (1581-1641), contribuì a riaccendere, tra i maestri locali, un interesse per il linguaggio classicista degli affreschi di Raffaello Sanzio (1483-1520) delle Stanze Vaticane. Dai suoi lavori, l’allievo Pacecco De Rosa, (1607-1656), realizzò il dipinto, esposto in mostra, il Bagno di Diana, 1645 ca., soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (III, 225 – 252): Atteone osserva di nascosto Diana nell’intimità del bagno mentre è accudita dalle ninfe, in un momento di riposo dalla caccia; per questo suo oltraggio sarà punito e tramutato in cervo. Il pittore, con equilibrata grazia, compone una scena che si esalta nella ricerca di un gusto classico e di un “bello ideale”.

I maestri napoletani del Seicento mostrano di fare un pezzo di strada con artisti forestieri di generazioni diverse, come l’italianizzato Michele Desubleo (1602-1676), di cui è esposta la sua Ulisse e Nausicaa, realizzata dopo il 1665 e raffigurante l’episodio tratto dall’Odissea (VI, 127–216), in cui Nausicaa, circondata da ancelle, offre una veste a Ulisse, naufragato nell’isola dei Feaci. Le fanciulle sono ritratte mentre giocano a pallacorda, antenato del moderno tennis. La stessa Nausicaa, infatti, ha in mano una racchetta mentre la palla è in basso sulla sinistra. I toni freddi, le carni marmoree e le citazioni da Raffaello Sanzio (1483-1520), Guido Reni (1575–1642) e Domenichino (1581-1641) producono un tono languido e aggraziato ben inserito nel filone purista.

RIBERESCHI A PASSO RIDOTTO

Alcuni maestri, attivi nel secondo trentennio del Seicento, svilupparono invenzioni tratte da Ribera (1591- 1652) in formato da stanza o da cabinet, riducendo composizioni più ambiziose in dipinti dalle dimensioni contenute e affollandoli di figure terzine, (ossia a un terzo della grandezza naturale) dinanzi a paesaggi e a scenografie urbane. Questi maestri furono definiti da Roberto Longhi (1890-1970) “caravaggeschi a passo ridotto”, ma, alla luce degli studi che hanno inquadrato l’artista spagnolo come il pittore di maggiore influenza a Napoli, forse la definizione migliore è quella di “ribereschi a passo ridotto”, tra cui il tedesco Johann Heinrich Schönfeld (1609–1684). Fu un artista poliedrico, incisore e pittore dall’attenta vena indagatrice, divenne il mediatore artistico tra le nuove correnti classiche di Nicolas Poussin (1594-1665) e il lessico barocco di Pietro da Cortona (1596-1669). Non restò insensibile all’arte di Bernardo Cavallino (1616-1656) e Micco Spadaro (1609-1675). Nell’opera in mostra, Rinvenimento della vera croce, realizzata dopo il 1640, le figure spiccano nella penombra della notte, rese come silhouette ed esaltate dal raffinato gioco di luci. 

Proseguendo con il percorso espositivo, una sala è dedicata alla spettacolare cascata sull’acqua delle Ipomee e boules de neige, di Andrea Belvedere (1652-1732). Si tratta di una delle più belle nature morte napoletane: la raffinatezza cromatica e la particolare qualità della materia pittorica ci fanno capire come l’eredità di Luca Giordano (1634-1705), alla fine del secolo, arrivò a influenzare anche i pittori di genere. 

Proprio l’artista napoletano è il protagonista indiscusso di questa parte della mostra ed è ripetutamente messo a confronto con altri artisti. Il suo linguaggio barocco si diffuse anche tra i grandi specialisti di natura morta della fine del secolo, come Giuseppe Recco (1634-1695), in sala la Natura morta con pesci, 1665-1670, e Andrea Belvedere (1652-1732) con Natura morta con pesci, 1680-1690. 

Giuseppe Recco, Natura morta con pesci, 1665 – 1670
olio su tela
Napoli, Museo e Certosa di San Martina (in temporanea dal 1988)

Gli inoltrati anni ’50 del Seicento sono caratterizzati, a Napoli, da una situazione in fermento. Nello spazio di pochi anni il talento precoce di Luca Giordano (1634-1705) contribuì a diffondere nel Viceregno la cultura del barocco romano di Gian Lorenzo Bernini (1598 –1680) e di Pietro da Cortona (1597 –1669), tra soggetti religiosi, mitologici e celebrativi. In sala è visibile il confronto tra Apollo e Marsia, 1637 di Jusepe de Ribera (1591-1652) e Apollo e Marsia, 1657-1659 del pittore partenopeo. Il satiro Marsia sfida Apollo in una gara musicale. Dopo aver perso, il dio lo punisce per la sua audacia e lo scortica vivo. L’artista spagnolo raffigura il momento più drammatico del mito, con il satiro che urla di dolore per l’atroce supplizio. Ai due angoli estremi della composizione sono raffigurati gli strumenti musicali utilizzati nella gara: il flauto di Pan e il violino. Il pittore coniuga il suo potente realismo con un trattamento brillante della materia cromatica e una vibrante rappresentazione del paesaggio che gli deriva dallo studio della pittura veneta del Cinquecento. Circa venti anni dopo il dipinto di Ribera (1591-1652), Luca Giordano (1634-1705) si cimentò nella sua versione di Apollo e Marsia, che rimanda a quella del maestro spagnolo nella ripresa iconografica e nella resa naturalistica del volto di Marsia, distorto dal dolore. Egli attenua però il marcato naturalismo, utilizzando una materia pittorica più sfumata, ma soprattutto allentando la tensione emotiva tra i due protagonisti della storia, che distolgono lo sguardo rispetto allo spettatore.

GLI SCALI DEL BAROCCO. PRETI TRA ROMA E NAPOLI

Un altro pittore operativo a Napoli per quasi un decennio, dal 1653 al 1661, fu il calabrese Mattia Preti (1613-1699). Dopo una formazione avvenuta a Roma (con un occhio sempre aperto sui fatti napoletani), mise a punto le risorse di uno stile luministico contrastato e di sicura efficacia, ricco di tagli scorciati e di sottinsù. Nel gruppetto di tele in mostra, Cristo e la moneta, 1675 ca., e Convito di Baldassarre, 1668 ca., contempera ricordi dai caravaggeschi, dal parmense Lanfranco (1582-1647) e dai maestri del Rinascimento veneto, rivestendo le scene bibliche d’una coloritura drammatica. 

Mattia Preti, Cristo e la moneta, 1675 ca. olio su tela
Collezione Borbone
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

IL TRIONFO DELLA MORTE

A Napoli la peste imperversò nel 1656, mietendo più di 200.000 vittime, circa la metà della popolazione. Per i pochi artisti sopravvissuti, quel flagello fu una grande occasione di racconto: i più intensi quadri eseguiti negli inoltrati anni ’50 si richiamano, più o meno direttamente, alla Peste. Il gran dipinto di Luca Giordano (1634-1705) col San Gennaro che intercede per le vittime della peste, 1660-1661, proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Pianto, è pieno di echi del Barocco romano, da Pietro Cortona (1596-1669) a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680). Nel primo piano, il pittore raffigura uno scorcio urbano, con i cadaveri in attesa di essere portati via dai monatti con la mascherina, per difendersi dal contagio. La stessa torsione dei corpi si ritrova in Nicola Malinconico (1663-1721), al quale in questa sede viene attribuito l’Adamo ed Eva piangono la morte di Abele, del 1690 ca.

FESTA DEL ROSARIO

Al centro della sala la Madonna del Rosario, del 1686 di Luca Giordano (1634-1705), è un omaggio alla religiosità istintiva e popolare tipica delle processioni sacre che si svolgevano nella Napoli vicereale. È rappresentata in basso una folla di fedeli, protagonista e spettatore insieme dell’evento miracoloso: la statua della Vergine portata in processione sotto il baldacchino si “fa corpo e carne”, tangibile metamorfosi del mistero della fede. La presenza delle quattro nature morte, di Giuseppe Recco (1634-1695), celebra nelle sue forme esteriori una religiosità spiccatamente barocca, della gioia di vivere attraverso i frutti della terra e del mare, che rinviano alle prosperità del mondo come dono di Dio. D’altronde nella bottega di Giordano (1634-1705), la prima formazione dei suoi allievi avvenne attraverso dipinti di fiori, di frutta e pesci.

 

I CAPISALDI DEL BAROCCO NAPOLETANO

Apre la sala l’Assunzione della Maddalena di Sebastiano Ricci (1659-1734), il più vicino al pittore napoletano dei grandi artisti veneti. Dopo la morte di Giordano (1634-1705), nel 1705, sia nella decorazione ecclesiastica che nei dipinti da cabinet, lo stile si fa più disciplinato, rientrando negli argini di un equilibrio accademico e scenografico. La pittura diventa sempre più una sorta di suggerimento del teatro. La grande tela con Enea e Didone, eseguita da Francesco Solimena (1657-1747) negli anni ’20 del Settecento, ha riacquistato, dopo un importante restauro, il suo carattere monumentale e sontuoso, probabilmente ispirato dalla Didone abbandonata musicata e messa in scena nel 1696 da Alessandro Scarlatti (1660- 1725). 

Sebastiano Ricci, Assunzione della Maddalena, 1718 – 1720 ca.
olio su tela
Collezione Borbone
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

CHI GUARDA E CHI E’ GUARDATO

Come si offrivano gli artisti del passato allo sguardo altrui? In questa sala assistiamo a due esempi emblematici: l’Autoritratto di Francesco Solimena (1657-1747), campione della pittura napoletana tra tardo Seicento e la metà del secolo successivo, e quello di Paolo de Matteis (1662-1728), artista molto apprezzato anche Oltralpe, allievo di Luca Giordano (1634-1705). Se un’orgogliosa ostentazione della sua professione d’artista contraddistingue il superbo autoritratto del Solimena (1715), una sottile ironia traspare da quello del de Matteis, che si raffigura, in vestaglia e papalina, mentre sta dipingendo al cavalletto le personificazioni dell’Austria e della Spagna che si riappacificano. Di ambito non napoletano, è visibile in sala l’Allegoria della pittura, di Giulio Carpioni (1613-1678), che raffigura una singolare ed elegante figura femminile ritratta mentre è impegnata a dipingere, efficace metafora della creazione artistica. 

Francesco Solimena, Autoritratto, 1715 olio su tela
Napoli, Museo e Certosa di San Martino

IL PAESAGGIO NAPOLETANO NELLA PITTURA DEGLI STRANIERI 

Nel corso del Seicento, l’arte napoletana si è nutrita ed arricchita dal contatto con i maestri forestieri come Caravaggio (1571-1610), Ribera (1591-1652), Fanzago (1591-1678), Domenichino (1581-1641) o Lanfranco (1582-1647). Nella seconda metà del ‘700 il Vedutismo napoletano è stato addirittura creato dallo sguardo degli stranieri sul paesaggio. Napoli era una tappa necessaria nell’educazione del Grand Tour: scavi di Pompei e di Ercolano, Paestum e i suoi templi, il Vesuvio in perenne attività dal 1770 al 1790, con eruzioni spettacolari e continue, il Golfo e le sue isole, sono oggetti di maggiore curiosità tra gli artisti nordici, che giungono nel Regno di Napoli, tedeschi, inglesi, francesi, olandesi e danesi. Osservano tutto, ma selezionano i soggetti con cura, dando inizio al genere del Vedutismo. I dipinti di un appassionato del Vesuvio come Pierre-Jacques Volaire (1729-1799) sono capisaldi in un genere di grande successo. Il pittore non cambia una formula vincente che comprende l’inquadratura angolata, le figure che entrano da un lato, il contrasto fra il rosso della lava e il cobalto delle sere di luna, oltreché il virtuosismo nel restituire i riflessi zigzaganti del fuoco a mare. Rappresentare i fenomeni naturali più impressionanti contribuisce a far nascere la poetica del Sublime, i chiari di luna ed eruzioni vulcaniche, contrasti cromatici e emozionali, che impronteranno gran parte della cultura europea della fine del Settecento.

 

OTTOCENTO CARAVAGGESCO

Aperto con il dipinto la Flagellazione di Caravaggio (1571-1610), il percorso espositivo si chiude con tre capolavori napoletani di secondo Ottocento, che costituiscono altrettanti episodi di “caravaggismo moderno”. Sul piano della composizione e dei contrasti chiaroscurali, si riconoscono debiti con la pittura napoletana del Seicento, “una tradizione dura a morire”. Lungo un arco di poco più di tre lustri, incontriamo lo zoo in movimento di Filippo Palizzi (1818-1899), Dopo il Diluvio del 1863, e per concludere la corsa dei Bersaglieri a Porta Pia del 1871, dipinta da Michele Cammarano (1835-1920). Sebbene i fratelli August Lumière (1862-1954) e Louis Lumière (1864-1948) arriveranno 25 anni dopo con le immagini in movimento, con il dipinto dei Bersaglieri siamo già nei termini del cinema.

 

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“Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli”
A cura d Stefano Causa e Patrizia Piscitello
31 marzo 2022 – 7 gennaio 2023
Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

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