Fame blu, edito dalla casa editrice La nave di Teseo, è il nuovo romanzo di Viola Di Grado. Laureata in filosofia dell’Asia all’University of London, nata a Catania nel 1987, indaga nei suoi romanzi i temi dell’incomunicabilità e dell’alienazione
Protagonista di Fame blu è una donna di cui non conosciamo il nome che, in seguito alla – e a causa della – morte del fratello gemello Ruben, si trasferisce a Shangai, nella Cina tanto amata dal suo Ruben. Il suo mestiere è quello di insegnare una nuova lingua – l’italiano – a studenti e studentesse cinesi, e, di una di queste, s’innamora di un amore assoluto e bisognoso: Xu è una ragazza bellissima, ma estremamente enigmatica e incomprensibile.
L’incomprensibilità è quello che rende Xu non suscettibile alla sofferenza: il suo tentativo, che verrà poi da lei tradito, è infatti quello di non essere compresa dall’altro così da non essere alla mercé del male altrui. La scrittura di Viola Di Grado è essenzialmente una scrittura visiva: fatta di immagini, che, sovrapponendosi l’una all’altra, creano una storia e, prima di tutto, un personaggio, la cui identità è sfuggente, e, in qualche modo, fluida. Fame blu è un libro devastantemente bello.
Il tuo libro racconta una storia fresca: una storia nuova e insolita, diversa da quelle che vengono raccontate nella letteratura italiana contemporanea. Com’è nata questa storia?
Dopo aver tenuto una conferenza all’Università di Shanghai, mentre uscivo dal bagno, mi si è piantata davanti una ragazza molto bella: si è dichiarata mia grande fan e ha preteso che ci scambiassimo il numero. Così abbiamo fatto. Il giorno dopo le ho scritto chiedendole di portarmi al mattatoio: avevo letto di questo posto bizzarro e abbandonato. Lei ha acconsentito. Lì le ho chiesto di sdraiarsi sulle scale contorte dove un tempo marciavano i poveri agnelli destinati al massacro e le ho scattato una foto: riguardandola quella sera è nata la storia di fame blu
Il tuo romanzo si distanzia fortemente dai romanzi tradizionali occidentali, che ruotano intorno a un personaggio dall’identità solida e ben definita. L’identità della tua protagonista è qualcosa di fluido, indefinito, a partire dal suo vero nome, il quale non ci viene mai svelato. Da dove ti viene questa concezione identitaria?
Sono molto vicina all’idea di identità della filosofia buddhista: uno stormo di uccelli, solo apparentemente simile a un unico grande uccello. Non mi interessa il personaggio tutto d’un pezzo occidentale ma la frammentazione della mente. La mia protagonista è reduce dal lutto di un fratello gemello su cui aveva basato, per mimesi, la sua identità. Ora, senza di lui, è un vuoto che cerca qualcosa per riempirsi.
La mancanza del nome è implicita nel sentimento d’amore? Riporti infatti la frase di Octavio Paz “Amare è spogliarci dei nostri nomi”.
L’amore è uno elemento destrutturante: demolisce barriere, ti porta al tuo nucleo irriducibile. E il nucleo non ha nome. Nella Foresta senza nomi, in Alice di Carroll, il cervo cammina abbracciato ad Alice, ma poi quando escono dalla foresta riprende il suo nome e scappa, solo e terrorizzato
A un certo punto, nel libro, viene ripetuta la stessa riflessione con le stesse parole. Trattasi “del suo modo di dominarmi. Rendersi indecifrabile, costringermi a uno sforzo di comprensione […]”. Qual è il significato di questa ripetizione?
No, non si ripete solo questa frase, si ripete l’intero capitolo, perché il romanzo ha una struttura circolare: inizia il giorno del primo compleanno che la protagonista passa senza il gemello, poi torna indietro e ritorna a quel punto.
“Qualcosa non tornava: ero in Cina, dall’altra parte del mondo, ma purtroppo ero sempre io”. “Animum debes mutare, non coelum” dice Seneca all’amico e allievo Lucilio. Cambiare luogo – percorrere una distanza così grande, come quella che divide Roma da Shangai – non è sufficiente per cambiare animo?
No, l’anima non può essere modificata dallo spazio esterno, il mondo può solo aiutarti nel percorso.
A un certo punto, scrivi che la protagonista si addormenta con “venerazione maniacale”. Ma questo ardore ossessivo verso chi è rivolto? Verso il fratello gemello morto, Ruben, o verso il suo nuovo amore, Xu?
Verso Xu naturalmente, ma è la stessa venerazione che provava per il fratello, e che ha dovuto traghettare su un altro corpo, su un altro amore, perché solo così lei acquista una parvenza di identità. Altimenti sarebbe, citando il modo con cui Anne Sexton descrisse se stessa, “un acquarello”
Di nuovo innamorata, la protagonista inizia a nutrire fiducia nelle parole, “una fede patetica, implorante nel linguaggio”. È il linguaggio umano – in questo caso la parola orale – capace di comunicare all’altro le nostre sensazioni, le nostre emozioni?
Il linguaggio è l’unico strumento che abbiamo per avvicinarci all’indicibile. I corpi tentano di fare lo stesso, ma sono troppo goffi, troppo appesantiti dal desiderio
“Il rumore del vivere è spesso simile a un urlo d’aiuto”. Verso chi lancia il suo urlo la protagonista?
Verso chi lanciamo le nostre urla, quando soffriamo? chi imploriamo quando chiediamo aiuto?
Quanto è autoreferenziale l’essere umano? … a pensare che gli insetti non esistono per sé, ma vogliono comunicare a noi qualche messaggio?
Questo è il grande problema della modernità: aver asservito tutto il mondo naturale al nostro infantile e violento bisogno di sentirci re. Hillman ha parlato molto della triste sorte degli animali, che non solo nei mattatoi ma persino nei nostri sogni sono al nostro servizio
“E io non sapevo ancora che il tempo andava occupato, che era pericoloso lasciarlo vuoto”. Cosa succede se si lascia vuoto il tempo? Come ti aiuta la scrittura in questo?
Il mio tempo non è mai vuoto perché penso sempre contemporaneamente a milioni di cose; pensare è l’unico modo di occupare il tempo, il resto è distrazione. La scrittura non mi aiuta occupare il tempo bensì lo spazio: nell’atto di trascrivere i pensieri, le tossine dell’inconscio vengono smaltite: in qualche modo sono fuori da me.
I titoli dei capitoli del libro rimandano al corpo. Corpo con cui la protagonista ha un rapporto conflittuale. È possibile essere un essere umano – sia donna che uomo – e non avere una relazione conflittuale con il proprio corpo?
Questa domanda mi fa molta tenerezza. Sì è possibile decisamente anche se per noi donne è impensabile.
Per la tua protagonista, andare in un nuovo Paese di cui non conosce perfettamente la lingua è un modo per evadere dalla comunicabilità e comprensione? Lei stessa si definisce stanca del cervello che la obbliga a “capire le cose” …
Essere compresi è una forma di prigionia: chi ti capisce in un certo senso ti ha in pugno. È per questo che Xu fa in modo di restare sfuggente. La protagonista invece vorrebbe non capire il mondo perché il mondo le procura un surplus di dolore. Il mondo, in fondo, era suo fratello Ruben
E, a sua volta, un essere più comprensibile – più facile da capire – è maggiormente suscettibile alla sofferenza? E più facile far soffrire chi noi riusciamo a capire?
Sì appunto, comprendere l’altro significa sapere dove affondare il coltello per provocare la massima fuoriuscita di sangue
Ruben è visto come quel fratello capace di risolvere ogni cosa. Se Ruben doveva aggiustare la sorella gemella, significa che in lei c’era qualcosa di rotto?
Questo è quello che lei pensa di se stessa, si sente inadeguata, inferiore al fratello: con la morte di lui é come se la parte migliore di lei se ne fosse andata. Ciò che di lei resta va distrutto ed è quello che tenta di fare tramite la relazione con Xu.