È dovuta costare cara la scelta di Mario Dellavedova di diventare artista, o meglio forse non lo ha mai voluto essere ma si è accorto che questa neghittosità era essa stessa territorio d’arte. “La mia non è una missione, tantomeno artistica… l’arte non è che un giochetto tra gli uomini: si fa si cambia e si scambia per eludere il costante bisogno di scegliere tra il bene e il male, il che in fondo non vuol dire assolutamente nulla”. Si capisce che si stia giocando a rimpiattino, ma che l’arte non voglia dire assolutamente nulla nel discrimine tra il bene e il male sfugge all’interlocutore. Forse anche questo fa parte del gioco. Ma a quale gioco si gioca? Perché l’arte si insinua nell’indolenza di vivere come istanza intelligente, forse, come ammette Mario, per interrompere in modo eversivo le stesse regole del gioco?
Dunque l’arte gioca il gioco degli infiniti rinvii anche allo scopo di esorcizzare la decostruzione del mondo. Che Mario strizzi l’occhio a Deleuze, piuttosto che a Baudrillard, o a Michel Onfray quando parla di Cinismo e di Fumismo, con l’orgoglio dichiarato di odiare il dibattito culturale pubblico è forse una civetteria per farsi notare. In una sua grande opera di parato rosso si legge una riduzione al neon di un distico di Ernest Dowson:
“Non sono triste sono stanco di quello che ho sempre desiderato”.
Eccolo lì, l’imputato di una generazione senza riferimenti perché li ha abbattuti tutti come birilli: il desiderio! E per non morire di desiderio rimane solo la seduzione dell’opera d’arte. “Le mie opere, scrive nel 1997 “mariotRitolodellavedova”, sono il simulacro della mia inconsistenza”. Già, il “simulacro” di un mondo che non ha nulla alle spalle, appunto l’inconsistenza, come Platone suggeriva nel Sofista, contro se stesso e il suo sistema di Idee. Si veda anche G. Deleuze in Logica del senso e in Differenza e ripetizione.
“Stanco dell’oscurità che regna, confessa Mario, nel profondo mi rallegro della luce che brilla in superficie dell’effimero”.
La mostra di Vigoleno non fa che ribadire questa poetica del simulacro, con giochi di immagini e di parole. La stessa copertina del catalogo della mostra con xilografato un astice (Salvator Dalì o Jeff Koons o meglio ancora: un buon menù culinario ben illustrato con natura morta) viene depotenziata dallo scorpione col suo pungiglione per delegittimare l’arte “furba” delle trovate milionarie in balia delle case d’asta e delle teorie speculative dell’arte che fanno il mercato e la fortuna di un artista.
Le pagine non-pagine interne sono rimandi a parole criptiche incise sulle patelle della sovracopertina e che alludono alla deframmentazione delle parole e delle cose. È la fine non solo del paradigma antico della somiglianza, ma anche della identità e differenza, che secondo Foucault innerva l’epistemologia moderna e contemporanea. I titoli criptici come “solitudinErosa” con una batteria di pseudo-vasi in terracotta con le bocche degli stessi formanti le lettere del titolo e con una rosa, che attiva l’intrigo linguistico di e rosa la solitudine. Così Rosa Mistica alle prese con la mestica dolce; l’acqua, il dolce amaro dello stilita (tentato sulla sua colonna nei deserti Plastici e Pittorici)… Mario ama l’ambiguità, l’aporia, crea confronti insoliti come un esercizio di libere associazioni. “Racconta l’allure di superficie degli attuali prodotti dell’immaginario, dice di lui Bonito Oliva, la seducente qualità delle merci in vetrina. Evidenzia i passaggi, i ritmi del consumatore contemporaneo. Il nostro sguardo si nutre infatti di prodotti e punti d’arrivo simbolici. Di vane fascinazioni, d’illusioni percettive”.
Il gioco di parole che ha bisogno di immagini e immagini che non sanno raccontarsi senza le parole: un esercizio di dissoluzione, che sa trasgredire simbolicamente il significante ricorrendo ad un altro significante con un altro sistema di segni per una disseminazione infinita di significati. Al fondo però si può riconoscere forse un’intenzione educativa, ritmata sulla polarità delle provocazioni, che cercano un equilibrio “con trappole linguistiche che tirano dentro” in un’esperienza altra. È allora che l’arte perde la sua ragione ideologica e diventa immersiva come in un rito religioso. Così l’arte di Mario diventa un esercizio ludico, se vogliamo un po’ troppo mentalista e aristocratico e forse poco comunicativo in senso mediatico: un tentativo di stare in disparte, dove non si cede neppure al desiderio dell’illusione per godere quel poco di autoreferenzialità del gioco che dà il gusto di navigare anche senza porto sicuro. La sua predilezione per Cioran e il suo disincanto nihilista traspare sempre come sottofondo senza mai cedere però all’avvilimento e allo sconforto esistenziale.
Mi piace infine suggerire l’immagine di Achille Bonito Oliva in margine alla mostra “fArt, il dopolavoro del poeta” in un “trialogo” con Mariuccia Casadio e Mario: “Sei un po’ come un barman che agita tanti, molti elementi e li cala in un bicchiere dove non si sa se si beve da sopra o da sotto”. Se non fosse che il paragone era calato in una hall di un albergo a Milano mentre i tre, seduti, sorseggiavano un aperitivo; si potrebbe prendere la metafora come la quintessenza di un’arte che deve essere presa seriamente per “non morire di verità” o come sostiene Dellavedova per “dare aria alle stanze ma soprattutto ai nostri pneumatici”.
Roberto Tagliaferri 2022