In occasione della personale Open, l’artista Luca Grechi rivela genesi e sviluppi dei suoi ultimi lavori realizzati giocando a tennis in una tensione inedita tra svago e riflessione estetica
Percezione, intuizione, rappresentazione, esperienza: sono questi i quattro centri gestaltiani di Open, la personale dell’artista Luca Grechi (Grosseto, 1985), inaugurata il 13 agosto 2022 presso la Galleria La Linea di Montalcino, con un nuovo ciclo di lavori concepiti negli ultimi due anni circa. Le tele di Grechi, animate da un sotto-parlato vibrante, dicono di un rigore d’approccio e insieme di una levitas d’introspezione. O retrospezione, poiché il suo sguardo si posa sui profili lieti di infanzia e giovinezza. Più che qualcuno potrebbe indovinare nel suo personale gioco con la tela, un piglio ludico alla Boetti! Specie chi si ricordi di quella sua opera del ’66, povera e concettuale, che eleggeva già a sovrani svago e doppio: Ping Pong.
Ma chi meglio della voce di un artista per avere luce su genesi, poetica, previsioni e prospettive a proposito delle sue tele? In occasione della mostra, fruibile fino al 30 settembre, Artslife presenta l’intervista a Luca Grechi, un’artista da cui trarre ispirazione, che scommette ancora sulla bellezza e lo esprime senza veli.
Il dettaglio più curioso e inconsueto è sicuramente il modo in cui hai scelto di realizzare questi dipinti. Come nasce l’idea del gioco a tennis con il quadro?
Tre anni fa ero alla ricerca di un nuovo piano pittorico. Al tempo lavoravo sulla sottrazione e sulla monocromia, a un tipo di pittura molto mentale, di attesa, un po’ faticosa, che non sempre mi andava di affrontare. Sentivo la necessità di qualcosa che mi distogliesse dalle solite forme, dai miei fiori…Così, un po’ per svago e un po’ per esperimento ho iniziato a fare questi quadri.
Giocavo a tennis in studio, a volte tiravo la pallina al cane. Nel periodo del covid, poi, ho ricominciato a guardare le nazionali e le internazionali di tennis… Insomma, queste palline ho incominciato ad inzupparle nel colore e a tirarle su alcuni miei quadri che in realtà erano già finiti, con il coraggio di andare oltre. Non avevo mai preso davvero in considerazione questo gioco, la pallina per me era più una parentesi, mi dicevo: “vediamo che succede”.
Ricordo di aver visto una di queste tele nel tuo studio di Roma, a Paese Fortuna. Allora, trovai divertente questa prassi pittorica: ho pensato da subito ad una sorta di happening privato, non tanto focalizzato sull’oggetto quanto sull’evento del gioco in sé…
Sì, esatto, esiste certamente questa dimensione dell’happening privato. È importante che si colga l’aspetto privato del gesto perché, almeno per il momento, non voglio che diventi un atto performativo. Per me è come dipingere: utilizzo solo un altro mezzo, ma c’è un’intima ricerca compositiva, c’è una ricerca estetica. Temevo che diventasse qualcosa di decorativo, con questi piani che venivano fuori, troppo forti, troppo rumorosi. Poi, grazie ad alcuni consigli, ho messo da parte tutti i miei dubbi: l’unico modo per capire questo lavoro è andare avanti.
C’è una figura in particolare che ti ha supportato in questa ricerca?
Due anni e mezzo fa Matteo Scuffiotti, della Galleria La Linea che oggi ospita i miei lavori, vide due miei quadri di questa serie e ne restò conquistato. Mi incoraggiò a portare avanti la ricerca. Io ero titubante, lui invece mi propose già allora di proseguire in vista di una personale solo su questo tema…ed eccoci qui!
Tornando nello specifico ai match di tennis con il quadro: mi sembra di capire che sia nata prima l’idea del gioco e dopo l’interrogativo su dove ti stesse portando…
Esatto, mi sono domandato se fosse il caso di portare avanti o no questi lavori, poi mi sono chiesto come portarli avanti. Ho avuto le risposte affrontando la ricerca in maniera più seriale. Andando avanti ho scoperto cose sempre nuove, dettagli che mi hanno coinvolto, mi sono reso conto che potevo fare poesia anche così.
A proposito di serialità mi viene in mente Roman Opalka, con i suoi infiniti details. Concettualmente, forse, c’è qualcosa che vi lega. Lui dipingeva numeri per descrivere il flusso temporale; allo stesso modo quando la pallina tocca la tua tela, profila inevitabilmente la sequenzialità dei tuoi gesti. C’è una volontà di dipingere le tue azioni nello svolgersi del tempo?
Si, senz’altro c’è questa volontà. Devo attendere che il quadro mi parli: ci sono momenti in cui puoi tirare la pallina e momenti in cui non lo puoi fare. Il tempo per me è dilatato, distribuito in una decantazione. Tutti i giorni la tela mi parla in una lingua diversa, poi arriva il giorno in cui mi parla la lingua giusta e allora accade una piccola magia, una piccola intuizione, qualcosa che permette di andare avanti. Un lancio, un gesto, un segno sulla tela sono azioni che vanno aspettate e colte in un preciso intervallo temporale.
Quanto conta il tema del tempo nella tua pittura?
In tutto il mio lavoro la componente dell’attesa è essenziale. Sui dipinti che sono ora in mostra ho lavorato un anno e mezzo. Spesso lasciavo ciascun quadro per uno o due mesi appeso al muro per osservarlo, capire dove poteva arrivare, cosa poteva dire. I quadri di Open alternano la mia usuale stratificazione pittorica ad una immediatezza di esecuzione, ad una sintesi nuova.
Oltre alla partita che giochi con te stesso e con la tela intravedo un’altra partita in gioco: la partita, se vogliamo, è anche una partitura, uno spartito musicale. Da sempre esiste un legame nascosto tra pittura e musica. È così anche per le tue opere?
Di sicuro c’è un legame con la musica, perché nel misurarmi con la tela attuo un movimento. Durante il processo creativo il corpo si muove nello spazio in un modo che trovo estremamente musicale. E questo riguarda tutta la mia pittura.
Rispetto alla serie di Open, queste palline mi richiamano anche degli spartiti, dei ritmi… C’è anche da considerare il suono che produco quando colpisco la tela. Si può dire che nella mia arte non esista un’idea precisa e unitaria legata alla musica, ma un insieme di particolari che, certo, la evocano.
Molti dipinti di questa personale si intitolano ‘Adolescenza’. Cosa raccontano del tuo passato?
Quando ero piccolo ho giocato per tanti anni a tennis, poi l’ho lasciato andare, qualche volta è tornato… È un gioco che fa parte della mia vita, che fa parte di me, quindi è stato quasi naturale che tornasse sotto un’altra forma. Per questo tutti i quadri in mostra si intitolano così, tranne quelli di piccolo formato che riprendono il titolo della mostra, Open.
A proposito del titolo di questa personale: che cosa vuole significare?
Il titolo, scelto da Matteo, è tratto dall’autobiografia omonima del tennista Andre Agassi: racconta di un’apertura. La mia pittura è aperta, è un’opera aperta, non vuole dire qualcosa di preciso, vuole solo parlare di pittura, non è arte sociale, non è politica. È una pittura del suo tempo che cerca di parlare del bello e degli stati d’animo umani. Immagino che chi si ritrova nei miei quadri è perché riscontra in essi la vitalità, la malinconia e tutta la gamma di emozioni che ciascuno vive ogni giorno. Open in tanti sensi, dunque. Un’apertura anche alla novità. Questa serie di quadri riguarda una ricerca che intendo portare avanti: andando a fondo mi sono accorto delle possibilità che la pittura mi può dare. Non so ancora bene come, ma di sicuro continuerò per scoprirlo.