La nuova serie Netflix racconta la vita di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee, sollevando un interrogativo radicale: fino a quando una vita può considerarsi ancora umana?
Jeffrey Dahmer nasce il 21 maggio 1960 a West Allis, nella contea di Milwaukee, da una famiglia benestante con gravi problemi relazionali. La madre, Joyce, si culla nella depressione tra vagonate di pasticche, mentre il padre, Lionel, trova nella tassidermia, praticata nel garage di casa su animali recuperati in strada, l’unico punto di autentico contatto con il figlio. C’è qualcosa che non va in me, pensa ripetutamente Jeff, chiuso nel suo mondo senza prospettive: «Spesso la gente parla a sproposito. Ci sono persone che non possono averlo un sogno, almeno persone come me». A diciotto anni, subito dopo il divorzio dei genitori, uccide il giovane autostoppista Steve Hicks, la sua prima vittima. L’esecuzione è brutale (il corpo senza vita viene prima violentato e poi dissezionato), ma la dinamica non è premeditata, tanto che Jeffrey è pentito di aver scatenato il suo mostro interiore e vuole impegnarsi per tenerlo a bada senza condividerlo con nessuno. Così, con l’aiuto del padre, inizia un periodo di miglioramento tra università, esercito e vari lavoretti. Tuttavia la scatola del bravo ragazzo è troppo piccola e tutti i tentativi si concludono con l’espulsione, l’umiliazione, il fallimento.
Nel 1987 Dahmer torna a uccidere, stavolta in maniera seriale, individuando il profilo ricorrente delle sue vittime: maschi, belli, gay, afroamericani o asiatici, anche minorenni. L’apparente timido e innocuo Jeff rimorchia i ragazzi, li droga, li lobotomizza, li fa a pezzi e infine se li mangia. L’atto è ripetitivo, implacabile, apaticamente cosciente, come rivela al padre poco dopo essere stato arrestato: «Ma io non sono pazzo […] Ma non ero pazzo, era soltanto…compulsione […] Ero ubriaco fracido papà, perciò non ricordavo alcune cose. Ma sapevo cosa facevo. Non avrei voluto, ma non potevo farne a meno. Non sono pazzo». In tredici anni JD ha ucciso diciassette ragazzi. Ha modellato le uccisioni in delle performance dell’orrore ricche di dettagli raccapriccianti: la volontà di trasformare le vittime in degli zombie personali, i risvolti sessuali nei vari momenti del processo seriale, la conservazione di documenti, foto e soprattutto parti di corpo disperse in giro per casa. Per non parlare del fatto che l’abitazione in cui ha compiuto più omicidi era quella di sua nonna, una vecchietta tutta chiesa e famiglia preoccupata del suo orientamento sessuale.
I delitti di Dahmer sono la risposta completamente deviata di un ragazzo recluso in una società con cui non vuole (o addirittura non può) interagire in modo diverso. Senza voler togliere una briciola alla responsabilità individuale, che l’ha condotto a una condanna di diciassette ergastoli, è evidente che in ballo ci sono numerosi altri fattori. La serie li fa emergere molto bene in maniera progressiva, analizzando sia il contesto familiare e la conseguente sindrome di abbandono, sia quello sociale, evidenziando il sostrato razzista e le mancanze criminali della polizia, più volte sollecitata a intervenire dai vicini. Basti pensare a una delle vittime, il quattordicenne Konerak Sinthasomphone, fratello minore di un altro obiettivo scampato a Dahmer qualche tempo prima (che gli era costato una lieve condanna in tribunale). Dopo essere riuscito a liberarsi e a rivolgersi a due poliziotti, Konerak viene riconsegnato a JD, che si spaccia per il suo fidanzato, nonostante il pesante stato di intossicazione e la palese età del ragazzino. Mentre Konerak viene violentato e smembrato la sera stessa, gli agenti, dopo una breve sospensione, ottengono una promozione. No, non è solo una serie tv, è l’America.
Serial killer, cannibale, ma pur sempre un uomo. Probabilmente Jeffrey Dahmer non è mai stato pazzo e bisognerebbe essere cauti nel definirlo mostro per disconoscerne l’appartenenza alla specie umana: in fin dei conti potrebbe essere una persona qualunque, il nostro vicino, persino noi stessi nel peggiore degli incubi. Sicuramente però era malato e questa malattia ha prevalso senza incontrare grandi ostacoli sulla sua strada. Durante il processo JD ammette:
È finita ormai. Non si è mai trattato di cercare di essere liberato, non ho mai voluto la libertà. Sinceramente volevo la pena di morte. Qui si tratta di dire al mondo che ho fatto ciò che ho fatto non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Credevo di essere malato, malvagio o entrambe le cose. Ora so di essere stato malato, i dottori mi hanno parlato della mia malattia. E mi sento in pace.
Dopo essersi convertito al cristianesimo, Jeffrey Dahmer viene ucciso in carcere il 28 novembre 1994.