Nelle sue sculture “commestibili” l’artista messicana Liliana Diaz affronta l’antico dilemma della distanza fra umano e creativo
Storia dello sguardo è un bellissimo libro di Mark Cousins che si chiede in un numero quasi infinito di pagine quale fosse l’aspetto del mondo attraverso gli occhi di donne e uomini viventi nelle varie epoche storiche dalla preistoria ad oggi. Che cosa videro gli astronauti dell’Apollo 8 quando entrarono nel campo gravitazionale della Luna? Perché siamo stregati dal sorriso della Monna Lisa? Siamo davvero sicuri di vedere ciò che è reale? Una serie di domande che, se sviluppate all’infinito, sicuramente metterebbero in discussione la natura della realtà stessa.
La messa in discussione dell’arte ad esempio è un esercizio che dovremmo fare ogni giorno soprattutto quando, davanti a certe operazioni, abbiamo la sensazione che qualcosa in quel discorso ci sfugga. Questo non riguarda solo le opere d’arte fisiche ma anche i testi d’arte e cioè quelli scritti dai grandi critici, o dagli sponsor, dagli avvocati dell’arte che si impegnano investendo un capitale enorme per diffondere delle ideologie specifiche e sbloccando dei codici interpretativi capaci di rendere familiari dei concetti piuttosto che altri. Che c’è di male? Niente. Quello che però fa riflettere è che spesso i linguaggi utilizzati nei testi, come nelle opere, appartengono a un mondo lontano da quello tangibile.
Spesso sono molto teorici e fanno uso di una grammatica che anche gli esperti fanno fatica a decifrare. Aumentano quella distanza tra arte e pubblico nata nell’antica Grecia, quando è stato intuito e poi inventato il concetto di Divino che viene espresso brillantemente in uno speech su Ted da Elizabeth Gilbert, che sottolinea quanto fosse difficile nell’antica Grecia e poi nella società romana credere che la creatività provenisse dagli uomini. Le persone credevano che la creatività fosse uno spirito guardiano divino e che venisse agli uomini da una qualche sorgente distante e sconosciuta per ragioni distanti e sconosciute.
I greci chiamavano questi spiriti divini della creatività “demoni”. Socrate, meravigliosamente, credeva di avere un demone che elargiva saggezza da lontano. I romani erano della stessa idea ma loro chiamarono quella specie di spirito senza un corpo un Genio. Il che è fantastico perché i Romani non pensavano davvero che un genio fosse qualcuno di particolarmente intelligente. Loro credevano che il genio fosse una entità divina che si credeva vivesse letteralmente nei muri dello studio di un artista. E che venisse fuori di nascosto per supportare il lavoro dell’artista e modellare il suo lavoro.
Eccezionale, ecco, quella distanza della quale si parla, è stato il modo di concepire la creatività in Occidente per molto tempo. Ma oggi abbiamo ancora bisogno di questa distanza? Liliana Diaz, artista contemporanea, ci racconta della necessità di dover invece condividere questo senso di genialità e di divinità attraverso le sue opere. Richiamando all’attenzione il bisogno di dover non solo conoscere attraverso lo sguardo, ma utilizzare tutti i nostri sensi. Sobremesa è un progetto che fa parte di una ricerca che indaga il modo in cui consumiamo il contenuto che scegliamo per nutrire il nostro corpo e la nostra mente, il nostro modo di condividere e il modo in cui ci riferiamo all’arte.
Liliana Diaz parte dal rapporto tra spettatore e arte, usando la scultura e il cibo come un ponte tra essi. Attraverso l’installazione, la performance, la scultura e la panetteria, si propone di creare opere commestibili che invitano il pubblico a essere divorato e divorare l’arte. L’idea di questo progetto nasce per l’esigenza di voler diluire questa distanza tra creatore e osservatore consentendo ai visitatori di influenzare il suo stesso lavoro attraverso l’azione del mangiare, esplorando così i limiti del contatto fisico con l’arte e trasformando qualcosa di così simbolico e ordinario come spezzare il pane in qualcosa di straordinario.
I risultati di queste interazioni saranno lasciati all’interno del pezzo per analizzare l’evoluzione della materia organica e indurimento del pane. Per la realizzazione delle sculture si è pensato al pane artigianale per la sua somiglianza nel processo di elaborazione, concordando una collaborazione con il maestro fornaio Xavier Barriga, fondatore di Panifici Turris a Barcellona. Ci sono artisti che davvero riescono a interpretare le esigenze della nostra epoca attraverso l’uso di codici capaci di renderci parte della stessa comunità. Un pezzo di pane può davvero sbloccare l’empatia nei confronti dell’arte. Guardare è umano ma creare è divino. E in questo caso possiamo farlo tutt*.