L’energia di STONES & BONES della compagnia Rootless Root elettrizza il pubblico al Teatro della Tosse di Genova
Quest’anno a dirigere la rassegna internazionale di danza “Resistere e creare” sono Linda Kapetanea e Jozef Fruĉek fondatori della compagnia Rootless Root. Una compagnia nata nel 2006 ad Atene che attraverso un linguaggio “primitivo e crudo”, come lo definiscono loro stessi, persegue una filosofia atta a soddisfare il loro desiderio di immergersi nelle profondità dell’essere umano. Le loro opere, installazioni, performance di medie e grandi dimensioni, sono state presentate in 21 Paesi. Hanno collaborato con Akram Khan nel suo assolo DESH, Staadsteater Kassel Dance Company, Dot 504, Helsinki Dance Company Finland, e molte altre compagnie e istituzioni. The Onassis Cultural Centre Athens ha sempre creduto nel loro lavoro per questo ha prodotto e presentato i loro pezzi Eyes In The Colors Of The Rain (2011), Kireru (2012) e Europium (2015), supportandoli nella tournée. E così è stato anche per la presentazione di STONES & BONES al Teatro della Tosse domenica 2 ottobre, resa possibile grazie al generoso supporto di ONASSIS STEGI – Outward Turn Program.
Lo spettacolo prende il via su una scena aperta in cui su un piano rialzato sono posizionate tre sfere di marmo. Da terra arriva strisciando la prima della quattro danzatrici. Sale lentamente sulla piattaforma dove la poca luce predilige posarsi sulle sculture di marmo che sul suo corpo strisciante. Si tratta di Linda Kapetanea, performer carismatica nonchè coreografa della creazione. Sarà lei a guidare tutto quello che ci sarà a seguire. Seduta di spalle un’altra interprete, raggiunta dalla Kapetanea in un abbraccio saffico, una volta sciolta userà la voce al microfono. Sulle note dell’ouverture del Il Lago dei cigni di Pëtr Il’ič Čajkovskij intonerà una canzone straziante.
Il suo volto cambia espressione continuamente a dimostrazione che oggi la danza non si accontenta più solo dell’uso delle gambe, ma si avvale di tutte le parti del corpo. Un coinvolgimento totale in cui il corpo umano viene mostrato nelle reali condizioni in cui la creazione avviene, cercando di rendere la vita umana più densa nel presente. Il marmo è simbolico, è il segno che dimostrerà nel futuro di essere esistiti. Fondamentale la musica dal vivo, un suono forte e pulsante che ricorda il battere del cuore, quando lo ascoltiamo dentro di noi e che ci fa comprendere che siamo vivi e quanto questo sia importante.
Le quattro danzatrici sul palco affrontano la materia dell’eternità, rappresentata appunto dal marmo, creando un’opera attorno alla battaglia umana con il tempo e lo spazio, con la gravità e il declino. Nei loro gesti c’è tanta forza, ardore, voglia di combattere e di affermarsi. Un affermarsi tutto al femminile che si manifesta anche con lo sciogliere i lunghi capelli per farli roteare ossessivamente in una taranta delirante. Una danza seduttiva e animalesca che continua fino alla fine quando all’arrivare dell’alba si comprende la speranza di tempi migliori. Ma quell’alba speranzosa si chiude, restano solo quattro donne che irrompono in un risata sempre più fragorosa. Disillusione? Ricerca di positività? Ironia?… Non si sa, ma ridere fa bene, ridere è coinvolgente ed infatti in quella risata si coinvolge l’intera platea che, entusiasta di quanto visto, poi esplode in un grosso applauso.
Lo spettacolo, valorizzato dalla composizione musicale di Vassilis Mantzoukis e dalla progettazione del suono di Christos Parapagides, usa la fisicità di quattro corpi assolutamente diversi tra loro. Interessante come i due coreografi abbiano lavorato a fondo sulla dissomiglianza di queste danzatrici – performer per far uscire da ognuna di loro la personalità che le contraddistingue. Un lavoro che ricorda molto quello di Pina Bausch, nonchè quello di Emma Dante, ma anche quello del regista Mario Jorio quando nel 2004 presentò sempre a Genova, al teatro HOP Altrove, “Dimora con corpi”, ispirato a Lo spopolatore di Samuel Beckett. Jorio avvalendosi di cinque attrici danzatrici (completamente nude) affrontò l’incessante perlustrazione di un esiguo spazio-prigione collettiva soggetta a determinate regole, imposte e condivise da un gruppo di corpi privati di ogni identità.
In STONES & BONES si dispiega un universo archetipico in cui le “creatrici” sprofondano nella forma e nel peso degli oggetti, sapendo che tutto finirà perché la presenza umana è sempre effimera.