Broker, in sala dal 13 ottobre il nuovo film di Hirokazu Kore’eda, il regista giapponese Palma d’Oro a Cannes per Un affare di famiglia
Poco più di dieci anni fa, in Corea del Sud, cominciò a prendere piede il sistema delle baby box, situate tendenzialmente fuori dalle chiese e istituite allo scope di evitare che i neonati venissero abbandonati nel nulla e destinati a morte certa. Questo sistema è oggetto di aspre controversie: da un lato ha salvato la vita a molti bambini, ma dall’altro è stato osservato come essi, per via di una legge che rende adottabili solo i bambini registrati alla nascita dalle madri biologiche, passino spesso l’infanzia e l’adolescenza negli orfanotrofi.
Non è un caso che un film imperniato sulla famiglia e sulla genitorialità si apra proprio con l’immagine di una baby box, dove una giovane madre abbandona il figlio neonato. Quando, il giorno successivo, decide di riprenderlo, scopre che il bebè è finito nelle mani di due amici, Sang-Yeoh (Song Kang-ho, premiato al Festival di Cannes) e Dong-Soo (Gang Dong-won). Sono, tecnicamente parlando, di trafficanti di essere umani, ma loro preferiscono chiamarsi “broker di buone azioni”, perché si rivolgono a genitori benestanti che possono offrire una vita stabile e agiata ai bambini e che vogliono aggirare la lunga trafila legale per le adozioni. La giovane madre (la cantante K-pop IU), anziché opporsi, decide di accompagnarli nella ricerca di genitori adatti per il suo bambino. Quello che i tre non sanno è che la polizia è sulle loro tracce.
Questa è solo la premessa del nuovo film di Hirokazu Kore’eda, Broker, presentato in Concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes, in cui le storie sembrano moltiplicarsi e le sorprese non finire mai, includendo, ma non limitandosi a, un omicidio e una misteriosa boss criminale.
Proprio in virtù del suo intreccio elaborato, Le buone stelle – Broker è un film ambizioso e forse un po’ sovraffollato, di idee e di intenti. C’è sicuramente della maestria nel modo in cui il susseguirsi di rivelazioni ribalta costantemente la nostra conoscenza e il nostro giudizio in merito ai protagonisti, ma è anche vero che alcuni passaggi mettono a dura prova la credibilità dello spettatore. Nel complesso, ci sono troppe deviazioni superflue e alcuni colpi di scena hanno un retrogusto artificioso; forse, se ne avrebbe potuto fare a meno, e dare più spazio ai personaggi, che nonostante l’alone di mistero che li circonda rimangono piuttosto prevedibili nelle loro azioni ed evoluzioni. L’impressione è che, per essere un film di Kore’eda, Broker si fermi a un livello abbastanza superficiale, tanto nell’indagine dei personaggi quanto nella denuncia sociale.
Se comunque Broker, malgrado i suoi limiti, riesce non solo a convincere ma in certi momenti anche a emozionare è grazie a quella straordinaria tenerezza che è parte integrante della visione del regista giapponese. Questo sentimento si esprime tanto nel linguaggio visivo dell’autore, con il suo amore per i volti e per i piccoli gesti, quanto nello sguardo che rivolge ai suoi personaggi. Kore’eda guarda con lucidità alle colpe di tutti, senza fare sconti, ma la sua comprensione e la sua compassione abbracciano chiunque indiscriminatamente. Certo, alcuni dei momenti chiave tra i personaggi possono risultare un po’ didascalici, ma anche questo è un difetto che passa in secondo piano grazie alle prove stellari di tutti i membri del cast, nessuno escluso. Gli attori, su cui svetta la sorprendente e bravissima UI, danno vita anche a quei personaggi che sembrano piatti sulla carta, ed è sui loro volti che si disegna il dibattito attorno al quale ruota il film – che cosa si può chiamare davvero famiglia? Per Kore’eda questo tema non è nuovo: lo ha già trattato ampiamente e in maniera più sfaccettata altrove (Ritratto di famiglia con tempesta, Un affare di famiglia, Little sister, Father and Son). Ma anche se Broker non è un capolavoro, è difficile resistere alla sua dolcezza e rimanerne indifferenti.