Blonde, la biografia da incubo di Marilyn Monroe diretta da Andrew Dominik. Traumi, ossessioni e sogni dell’icona hollywoodiana per eccellenza
Blonde, ora disponibile su Netflix, è stato uno dei film più chiacchierati della 79. Mostra del cinema di Venezia. Il film di Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates (Il giardino delle delizie. Epopea americana, Acqua nera) che prende spunto dalla biografia di Marilyn Monroe per fantasticare sui suoi sentimenti, sui suoi traumi e sui suoi demoni. Su un personaggio come quello di Marilyn è stato scritto di tutto (bene e male), eppure ancora una volta toccare questa icona hollywoodiana genera uno scossone negli spettatori, e l’onda dell’indignazione si alza con facilità.
«Cosa sono, un pezzo di carne?», chiede la Marilyn di Dominik (Ana de Armas) a un certo punto, quando la sua discesa nella spirale verso il degrado è ormai palesemente inarrestabile. Criticato per aver dato vita a Marilyn oggettificata e schiava dei desideri maschili, relegata unicamente al ruolo di vittima, Blonde mette in scena, sì, unicamente questo aspetto della vicenda dell’attrice più famosa al mondo (ribadendo fino alla sfinimento il meccanismo dell’ossessione e della frustrazione che la portano alla distruzione), ma è una critica al sistema maschilista che la sfrutta, la ridicolizza e la annulla. Non svilisce Marilyn, svilisce noi. Non basta a rendere giustizia a una figura complessa come quella di Marilyn, certo, ma nessun biopic sarebbe in grado. Blonde è un horror sentimentale che fa il paio con Spencer di Pablo Larraín (Jackie), storie di principesse, forse ingenue forse troppo romantiche, che hanno smarrito la strade, perseguitate da fantasmi e demoni che le spingono nelle grinfie dell’oscurità, senza principi, senza fate madrine, circondate unicamente d a un plotone di guardoni.
«C’è una cosa che non va in questo film – ha scritto Schrader, il regista di American Gigolò e Mishima – sono rimasto sbalordito dalla sua genialità e dalla sua inventiva. L’approccio caleidoscopico di Dominick, la giustapposizione tra i colori, tra i formati dello schermo, tra gli stili della fotografia, musica, e la manipolazione delle immagini creano il ritratto di un personaggio indelebile. Ma non è Marilyn Monroe. Questa è l’unica cosa che non va». Eppure, questo film così vivido e folgorante (una boccata di ossigeno in questi anni di film “beige” generati dagli algoritmi delle piattaforme), quasi tre ore imbastite come fossero un flusso di coscienza, non avrebbe senso senza l’alone e il fantasma proprio della vita così chiacchierata e, sì, anche disgraziata di Marilyn Monroe. Dominik realizza un film dall’atmosfera mortifera ma visivamente vivissimo, un tour de force cinematografico barocco e cangiante; sulla pellicola si rincorrono i fantasmi di Lynch (Fuoco cammina con me) e di Malick (The Tree of Life), in una serratissima rincorsa nell’inferno di una star.
E allora ecco un esempio di cinema scorretto, falso (che gioca con la verità, la piega, la falsifica, la riscrive), sgradevole e pornografico perfino (più nei sentimenti che nelle carni), che vuole essere disgustoso, come disgustoso è stato il trattamento riservato alla più grande delle star, al più grande dei feticci dell’industria cinematografica. Gioca con le immagini, le distorce e le altera, così come altera le identità e i corpi dei suoi protagonisti. Marilyn si fa ingannare dai suoi amanti, perché non le è stato insegnato altrimenti, rincorre la figura di un padre che non l’ha mai voluta, di una madre disturbata, diventa un’altra per interrompere il circolo vizioso della sue sfortune, alimentando così l’ossessione per un’ideale di famiglia che mai l’ha accolta. Ma Blonde è anche (e forse soprattutto) il ritratto del pubblico che ha creduto di amarla, che l’ha desiderata, l’ha usata, ma non l’ha capita.