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Parigi. Al Museo dell’Orangerie una mostra celebra vertigini e ossessioni di Sam Szafran

Szafran Sam (1934-2019) Feuillages (1986-1989) Collection particulière © Sam Szafran, ADAGP, Paris, 2022 / Jean-Louis Losi
Szafran Sam (1934-2019), Feuillages (1986-1989). Collection particulière © Sam Szafran, ADAGP, Paris, 2022 / Jean-Louis Losi
A tre anni dalla scomparsa, il Museo dell’Orangerie dedica una mostra a Sam Szafran. Dal titolo Sam Szafran. Ossessioni di un pittore l’esibizione riunisce circa 60 opere sui temi più esplorati e ricorrenti del suo iter artistico. Fino al 16 gennaio 2023.

Ho bisogno del caos. Il mio atelier è un immenso caos con pile di libri, pastelli sparsi qua e là, ammucchiamento di una miriade di cose. Ho bisogno, per fare nascere qualcosa, di partire dal caos”.

«Non cercate l’ordine nella sua opera- scrive di lui Arrabal nel ‘63- la sua coerenza è fortuita come quella della natura». Pittore libero, inclassificabile, fuori da ogni norma o corrente, Sam Szafran (1934-2019) ha saputo convertire le numerose sofferenze della sua difficile vita in opere d’arte singolari, inquietanti, misteriose. Artista riservato, discreto, ha lavorato nella solitudine del suo atelier in maniera personale, esprimendo con un percorso del tutto originale la difficoltà di vivere la modernità.

A tre anni dalla scomparsa, il Museo dell’Orangerie, la casa che accoglie le Ninfee di Monet, nel cuore dei giardini delle Tuileries, gli una mostra dal titolo Sam Szafran. Ossessioni di un pittore. L’esibizione riunisce circa 60 opere sui temi più esplorati e ricorrenti del suo iter artistico. Fino al 16 gennaio 2023.

Nel 1958 Sam Szafran abbandona l’astratto per dedicarsi quasi totalmente al pastello. Vuole riattualizzare una tecnica straordinaria, atta a mettere in risalto la raffinatezza del suo hortus conclusus. Ovvero una sorta di calligrafia giapponese dai tenui colori per un’imagerie senza tempo. Tra le 2000 opere realizzate, si contano 800 acquerelli e 1200 pastelli di incredibile ricchezza cromatica, concepiti da un artista che dichiarava di «avere quello che gli serve per poter disegnare per oltre 400 anni».

Tale determinazione creativa si ritrova nelle varie serie da lui prodotte in maniera quasi ossessiva: Atelier, Serre, Scale, Piante. Alla base una sorta di impegno metafisico che lo spinge verso l’assoluto e gli permette di dipingere sempre lo stesso soggetto senza mai esaurirlo, cercando di dimostrare che la creazione rimane comunque un processo sempre aperto.

Ho una prospettiva – dice- che si avvicina più alla prospettiva araba, basata sull’ovale dell’occhio, che alla tradizionale prospettiva geometrica caratterizzata da una linea d’orizzonte e punti di fuga. Ne risultano altre cose, ovvero un’altra atmosfera, un altro sistema, un altro modo di vedere. È un’invenzione che ricomincia perpetuamente.”

Il suo spazio dunque è quello della meditazione, della vita intima. Un microcosmo dove vi è posto per la silhouette della moglie Lilette, (Lilette parmi les philodendrons, acquerello e pastello ad olio su seta del 2009). C’è un’urgenza, un desiderio di portare il suo lavoro nel profondo delle cose, pur sapendo che le cose mancano di profondità. Questa necessità lo costringe a cercare senza sosta, nella speranza di raggiungere l’irraggiungibile. Ovvero «l’immagine di un subconscio placato e tragico allo stesso tempo».

Isolate, ripetute fino all’ossessione, le Serre assumono un aspetto strano, inquietante, misterioso. Filodendri, aralie, liane tessono e racchiudono un eden silenzioso, un paesaggio segreto, magico, spirituale. Con le sue giungle inestricabili, le sue cascate di foglie finemente cesellate, Sam Szafran reinventa la natura, la concentra in meravigliosi giardini sospesi in un loro strano, intangibile universo. Il rigoglio vertiginoso, misterioso di questi fantastici fogliami e arborescenze si risolve in un approccio poetico, onirico. «I suoi disegni fungono da pretesto per intavolare un gioco astratto con una perfetta abilità che anima l’inanimato e conferisce all’inerte la potenza della vita» scrive lo storico dell’arte Jean Clair.

Gli Atelier sono quasi sempre presi nel turbine di una tempesta, che tutto ricopre o distrugge e porta via. Dell’artista che lo abita resta solo una sagoma inerme o soltanto un frammento, il segno di una mano, di un braccio, sprofondati anch’essi nell’abisso, nella vertigine rovinosa degli elementi. Caos e squilibrio necessari per liberare le sue doti artistiche: «Vi è sempre una sensazione di squilibrio in quello che faccio».

Le Scale segnano prepotentemente l’universo artistico di Szafran. Sono scale vertiginose, labirintiche, inquietanti, ripetute variandone soltanto il punto di vista. Una linea serpentina, dinamica, elastica; spirale che le sostiene tutte, siano esse realiste, impossibili, illusorie, ruotanti su sé stesse in sempre nuove volute fino alla vertigine.

Biografia

Nasce nel 1934 nel cuore di Parigi a Les Halles l’ebreo polacco Sam Szafran (Pseudonimo di Samuel Berger). Sfuggito alla Rafle del Vélodrome d’Hiver si nasconde nel Loiret e poi ad Espalion nell’ Aveyron presso una famiglia di repubblicani spagnoli. Vita tormentata ed avventurosa fin dall’infanzia, ha appena 10 anni quando viene per un breve periodo internato nei campi di Drancy, liberato dagli americani mentre gran parte della famiglia perde la vita nei campi nazisti. Assieme alla madre e alla sorella si imbarca per l’Australia per raggiungere uno zio a Melbourne. Al suo ritorno in Francia nel ‘51, frequenta corsi serali di disegno conducendo una vita particolarmente rude e precaria, che lo porta a fare i mestieri più umili per sopravvivere. Fra il 1953 e il 1958 frequenta la Scuola de La Grande Chaumiere, dove insegna Henry Goetz. Qui lega con il milieu artistico parigino di cui fanno parte Nicolas de Stael, Jen-Paul Riopelle, Jves Klein, Henri Cartier-Bresson, Topor, Pelayo, Clave. Dopo le prime opere astratte e i collage, torna al figurativo. Nel 1964 incontra Alberto Giacometti che diverrà il suo maestro d’elezione; nello stesso anno entra alla galleria Bernard di Parigi. La prima personale arriva nel ‘65 ad opera del collezionista Jacques Kerchache.

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