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Lo spettacolo di Marco Paolini ci invita a rimanere “Sani”. La recensione

Marco Paolini_Sani photo gialuca moretto
Marco Paolin. Sani (photo Gianluca Moretto)

Questa volta sul palco Marco Paolini non è da solo. A introdurlo e a giocare con lui, nel senso del ‘jouer’ francese e del “play” inglese, una cantante ed un musicista che non fanno da contorno, ma sono parte essenziale di uno spettacolo tra canto e, appunto, canzone

Sani!, al Teatro Ivo Chiesa di Genova dal 3 al 5 novembre, prende il nome dal saluto veneto, che inevitabilmente in questi due anni di pandemia mondiale ha assunto tutt’altro significato. In questo lungo periodo infatti non abbiamo parlato, letto e sentito altro che riguardasse la salute, soprattutto quella degli altri, troppo facilmente catalogati in possibili contagianti e quindi untori. Ci si è approcciati al prossimo come possibile fonte e portatore di morte. Un mondo che ha perso ogni umanità. Questo ha portato a molte riflessioni da parte di scrittori, poeti, artisti. Per fortuna non sono pochi quelli che si sono chiesti: “Dove stiamo andando, che strada stiamo intraprendendo?”.

Paolini questo tempo di riflessione lo ha usato per montare il suo spettacolo che come sempre è un viaggio personale, intimo ma che in fondo abbraccia le vite di tutti. Col suo affabulare, Paolini analizza in maniera ironica quei fatti o quelle situazioni che hanno creato blocchi che vanno sbloccati, ostacoli che vanno superati e che una volta risolti (se ciò per fortuna accade) riescono a cambiare le persone. Racconta di date che non sempre sono sui libri di storia, perchè passate come eventi irrilevanti, ma che sono state formative per chi le ha vissute. Accompagnato dalla voce sensuale di Saba Anglana e dalla chitarra ruvida di Lorenzo Monguzzi, con la sua cantilena veneta coccola ogni frase che racconta per condurci ad un finale che ci tranquillizza, anche se la verità è diretta e potrebbe far male.


Quel “restiamo sani”, parafrasando il “restiamo umani”, annesso all’“Andrà tutto bene”, che ci è rimasto ancora sottopelle, è una minaccia che preferiremmo fosse una fake news piuttosto che una crudele verità. Ma in fondo se ne può uscire, di questo è certo Paolini. E come?… Attraverso il teatro. E’ il potere del teatro che spiana la strada aprendo un’infinità di possibilità per una lettura della vita ancora franca e positiva.

La scenografia che ricorda quella dell’ultima tournée di concerti di Fabrizio De Andrè, un grande castello di carte, è anche il simbolo della Sagrada Familia, la cattedrale a Barcellona i cui lavori iniziarono nel 1882 sotto il regno di Alfonso XII di Spagna e di cui si stima il termine per il 2028. Una costruzione che nell’immaginario di Paolini bambino era terribilmente brutta e di cui solo più avanti ha compreso la grandezza di chi l’aveva progettata, Gaudì, morto sapendo che non ne avrebbe mai visto il termine.

Paolini per quasi due ore ci apre la sua memoria per portarci per mano all’interno di quei momenti così privati, ma che sono il privato di tutti. La parola trasporta il pubblico tra le rovine del terremoto del ’76 in Friuli, ma anche all’incontro-scontro tra Reagan e Gorbačëv, al vertice di Reykjavík a Höfði, in Islanda nel 1986, ma anche a casa sua dove le banane avevano un’importanza particolare. Ma il momento più bello di tutto lo spettacolo lo regala col bis in cui racconta quando con un gruppo di amici, tutti attori di teatro d’avanguardia, ingaggiarono il Vate Carmelo Bene per una serata a Treviso che avrebbe dovuto risollevare le sorti, e i conti in rosso, della compagnia. Naturalmente non fu così anzi, la compagnia affondò nei debiti. Il quadro di Carmelo Bene poi non è dei migliori: non era nè simpatico, nè generoso, ma loro seppero come fargliela pagare.

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