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Moving around freely. Intervista ad Alice Paltrinieri e Francois Knoetze

François Knoetze, Core Dump - Dakar, 2018-2019, stampa fotografica su carta Semi-Mat, 84,1 x 59,4 cm - Courtesy dell'artista e di Galleria Ramo François Knoetze, Core Dump - Dakar, 2018-2019, stampa fotografica su carta Semi-Mat, 84,1 x 59,4 cm - Courtesy dell'artista e di Galleria Ramo
François Knoetze, Core Dump - Dakar, 2018-2019, stampa fotografica su carta Semi-Mat, 84,1 x 59,4 cm - Courtesy dell'artista e di Galleria Ramo
François Knoetze, Core Dump – Dakar, 2018-2019, stampa fotografica su carta Semi-Mat, 84,1 x 59,4 cm – Courtesy dell’artista e di Galleria Ramo
La mostra bipersonale Links and fragments across memories and geographies, presso la Galleria Ramo di Como, condensa le riflessioni di Alice Paltrinieri (1987, Roma) e Fraçois Knoetze (1989, Città del Capo, SA).

Esse si concentrano su spazi geografici estremamente ampi e articolati, ma sono accomunate dalla stessa necessità di comprendere i meccanismi politici e culturali che sorreggono la realtà prese in esame. L’intervista ripercorre e analizza le ricerche degli artisti: da una parte, Paltrinieri esamina i concetti di confine e identità, che traduce in performance e fotografie; dall’altra, Knoetze ripercorre alcuni aspetti salienti della serie Core Dump (2018-2019), volta alla problematizzazione congiunta della tecnologia e del colonialismo.

L’opera site specific 9,5 km (2022) registra la tua camminata sul confine Italia-Svizzera. Tramite un dispositivo di rilevamento del movimento, il tuo cammino è stato segnato e rimandato successivamente alla Galleria Ramo tramite satellite, dove la performance è stata tradotta in un punto che si muove in uno schermo nero. Il puntino colorato sembra brancolare nel buio, ma in realtà segue una linea precisa e divisiva, quella del confine, limite territoriale e culturale. Che cosa esprime questa azione performativa? La serietà di questa performance viene stemperata dalla tipologia di esposizione scelta: il puntino colorato che si muove nello schermo ricorda quasi un gioco. Come si giustifica questo divario?

Alice Paltrinieri: L’azione che ho svolto durante la residenza in galleria Ramo è stata un tentativo di percorrenza di una precisa linea immaginaria che separa due aree geografiche, un limite che allo stesso tempo crea un contatto tra di loro, che le fa strusciare fino quasi a mischiarsi, perché appunto linee vere non ce ne sono. È stato interessante cercare di camminare esattamente sulla linea sinuosa di demarcazione usando il GPS come riferimento, che peraltro non è mai così preciso, riflettendo su quanto sia fattibile essere in due stati diversi nello stesso istante e quanto questo tentativo di superare il limite sia realmente facile. A registrare questi percorsi e renderli visibili era una testa mobile Led che in diretta con il GPS seguiva i miei movimenti proiettandoli sulle pareti della galleria.

La loro registrazione mi ha permesso di lavorare in post produzione al video sovrapponendo i diversi tracciati percorsi così da avere più elementi che si muovono nello stesso spazio. È nato un video simile a un vecchio videogioco in cui queste entità si muovono, si incontrano, si conoscono e si separano in un luogo altro. L’idea di videogioco in questo caso non ha un’intenzione specificamente ludica, anche perché non ci si può interagire, ma è più una trasposizione del reale in uno spazio digitale nel quale ho trovato modo di alleggerire una complessità, almeno visivamente. Incontri complicati nati su una linea di confine.

Alice Paltrinieri – Courtesy Alice Paltrinieri

I titoli delle tre fotografie Object in background, Shadow behind head e Eyes fully visible, tutte datate 2022, sono in realtà alcune delle indicazioni per scattare correttamente una fototessera. Tuttavia, le immagini non mostrano che fotogrammi neri su cui si vedono i puntini colorati di cui parlavamo prima: questa rappresentazione è una critica al concetto attuale e codificato di “identificazione”?

Sotto ogni singola fototessera c’è una scritta che guida alla corretta esecuzione della foto con delle particolari indicazioni da seguire, e quello che ho cercato di fare è stato proprio di non dare alcun tipo di identificazione alle singole foto per un ideale passaporto che, a questo punto, diventa inefficace e quindi inutile nella sua funzione. I puntini sul monitor che si spostano sono costellazioni che cercano le loro coordinate in modo spasmodico, e nelle fototessere c’è il tentativo di fissare 36 situazioni. Siamo figli delle stelle, diceva qualcuno.

Le opere in mostra si confrontano con le tematiche del confine, dell’identificazione e in generale del rientrare in canoni concordati e precisi – che possono essere quelli territoriali legati alle frontiere oppure alle modalità di riconoscimento. Cosa vuole dire per te “confine”, in un momento storico in cui si osserva, da una parte, una liquefazione delle distanze e dei confini abbinata a un forte interesse e curiosità per culture differenti; e dall’altra una riscrittura violenta e repentina delle frontiere?

Credo ci sia una forte insicurezza alla base di questa volontà di affermazione e riaffermazione delle frontiere, un tentativo di gestione e difesa di alcuni sistemi che è ormai chiaro che si stanno sgretolando perché non più conformi alla società attuale. Qui parliamo di confine come superamento di un limite e di superamento come possibilità. Sicuramente siamo in un momento di passaggio con un futuro poco visibile/immaginabile e sentiamo maggiore necessità di fissare il momento che stiamo vivendo, fragili sicurezze.

Nei miei lavori cerco di raccogliere più informazioni possibili e di annullare questi confini mettendo in comunicazione più luoghi (ed eventi) distanti geograficamente tra loro, facendo in modo che tutto questo avvenga in diretta, eliminando la distanza temporale il più possibile. Questo mi permette di creare dei cortocircuiti che sono il risultato di avvenimenti che non conviverebbero mai in quel modo se non decidessi io di farli incontrare. Cerco in quell’istante di rendere una convivenza possibile che generi una trasformazione data da una complessità di elementi che cercano un incastro tra di loro. Un futuro sicuramente incerto ma con infinite possibilità.

Links and fragments across memories and geographies - Installation view, Galleria Ramo, Como, 2022 - Courtesy Galleria Ramo
Links and fragments across memories and geographies – Installation view, Galleria Ramo, Como, 2022 – Courtesy Galleria Ramo

Core Dump (2018 – 2019) è un coacervo di numerose fonti, che vanno dai filmati d’archivio, alle performance, alle interviste audiovisive registrate, fino ad arrivare a rappresentazioni lucide e allo stesso tempo utopiche della contemporaneità. Tutto ciò è volto a problematizzare il legame tra tecnologia e colonialismo, che allo stesso tempo ricorda quanto il presente sistema tecno-scientifico capitalista sia insostenibile. In che modo questa ricerca viene diluita nei quattro video che compongono la serie?

Fraçois Knoetze: Il mio lavoro esamina il più ampio ecosistema della tecnologia: non solamente come interagiamo con i computer, ma anche come ci relazioniamo con la varietà dei luoghi interconnessi dove le tecnologie vengono prodotte, consumate e gettate via; dalla materia prima, al trasporto, alla lavorazione, allo scarto. Per Core Dump, ho provato a immergermi nella ricerca per capire come sia possibile per i minerali congolesi, ricavati dalle terre rare e necessari alla creazione dell’elettronica digitale, essere estratti, esportati in tutto il mondo, per poi finire nei flussi sanguigni di improvvisati riciclatori di scarti tecnologici, in luoghi come il Ghana o il Senegal (luoghi che hanno tra i livelli più bassi di connessione internet al mondo). Tento di creare connessioni tra la cibernetica e il colonialismo.

Ad esempio, nel capitolo di Core Dump ambientato a Shenzhen, traccio dei collegamenti tra le “reti anti-suicidio” attaccate alle navi negriere Europee, e le più recenti reti istallate nelle fabbriche di elettronica a Shenzhen, dopo che molti impiegati hanno tentato il suicidio lanciandosi dalle finestre degli alti palazzi delle fabbriche. Ritengo che il nostro rapporto con la tecnologia e le macchine sia inseparabile dal lavoro disumanizzante delle piantagioni. Inoltre, l’organizzazione coloniale è costruita con l’obbiettivo di estrarre quante più risorse possibili nel modo più rapido ed economico. Nel capitolo ambientato a New York, il protagonista è modellato sulla figura iconica del Boston Dynamics Robot “Big Dog”: dopo essere fuggito da un laboratorio, è tagliato in due da una delle porte della metropolitana, in questo modo si creano due percorsi paralleli attraverso New York. Il suo viaggio finisce quando una metà viene scaricata a Dakar tra un carico di rifiuti elettronici, portando la serie al punto di partenza e concludendo il ciclo, le due metà si guardano dalle sponde opposte dell’Atlantico.

Da scultore e video artista che ha lavorato con performance pubbliche casuali, e che ha una particolare interesse verso il ciclo e percorso dei materiali, sono interessato a creare costellazioni e sequenze circolari e non lineari, e a giustapporre immagini inusuali per creare nuove connessioni. Immagino uno spettatore che entra nel lavoro – spesso un video in un museo o galleria – in un qualunque momento. Ciò si collega anche all’idea della storia che si ripete, nonostante i tecno-utopisti tentino di presentare l’era digitale come qualcosa di completamente nuovo. Nel suo saggio Technology is society made durable, Latour descrive la difficoltà che abbiamo nell’integrare la tecnologia nella teoria sociale. Sappiamo come descrivere le relazioni umane, sappiamo come descrivere i meccanismi: in sostanza, siamo in grado di alternare i contesti e i contenuti, ma non sappiamo unire i due in un insieme coerente.

Credo che, a meno che non prendiamo sotto esame questo intero paesaggio di interdipendenze, rischiamo di cadere in un’idea limitata tecno-utopistica della tecnologia. Questa è per me l’importanza di una narrativa convincente. Mettere insieme immagini e riferimenti dalla storia mi aiuta a organizzare le idee, e a iniziare a cucire assieme questi disparati luoghi di incontro. C’è sempre un aspetto legato alla grafica e alla cultura popolare. In altre parole i video si muovono tra “discorsi”: discorsi di stato, discorsi economici, temi progettuali, che poi si condensano in un oggetto concreto. Dunque, il lavoro consiste nel trovare il potere che un oggetto o una storia possono avere, e nel manifestarlo.

Francois Knoetze – Courtesy Francois Knoetze

Credenze tradizionali, religione e la sua forma “difettosa” sono fortemente presenti nella serie Core Dump, rappresentano una controparte che si oppone alla tecnologia. Nel video ambientato a Dakar – in un ambiente danneggiato dagli scarti tecnologici, ma anche consumato dalla brama di nuove tecnologie – si sostiene che: “La sola cultura Africana ha preservato il calore di una vita che può a sua volta far rivivere un mondo che è morto a causa di macchine e cannoni”. (1) Invece, nel video ambientato a New York, il manichino meccanico si inginocchia di fronte a un Apple Store, come se fosse un monumento religioso. Questa azione rappresenta il profondo desiderio degli Occidentali per nuovi device tecnologici, e allo stesso tempo ricorda quanto questa necessità abbia danneggiato il mondo, e in particolare gli Stati Africani. Le credenze tradizionali hanno qualche possibilità di sanare l’attuale urgenza distruttiva di nuove tecnologie? Come questi due aspetti interagiranno – o si scontreranno – nel futuro?

La frase, “La sola cultura Africana ha preservato il calore di una vita che può a sua volta far rivivere un mondo che è morto a causa di macchine e cannoni” è una citazione di Leopold Sedar Senghor. I video non presentano la religione o le credenze tradizionali in opposizione alla tecnologia; piuttosto, cercano di forzare gli elementi di questa rete socio-tecnologica. Questi scontri, o interazioni, tentano di presentare una controparte al tecno-soluzionismo o pensiero computazionale. Credo che il desiderio per nuove tecnologie non sia di per sé responsabile dei danni che vediamo. È responsabile invece la visione secondo la quale l’unico aspetto rilevante delle nuove tecnologie è il loro valore d’uso; questo punto di vista non prende in considerazione il processo e il sistema che compongono il ciclo vitale dei dispositivi tecnologici: dalle materie prime richieste, al lavoro necessario per crearli, allo specifico contesto culturale e spirituale nel quale vengono utilizzati e riutilizzati, fino all’impatto ambientale del loro abbandono una volta che sono diventati antiquati.

I video ambientati a Dakar e Shenzhen mostrano il problematico avvicinamento tra umano e tecnologia: nel primo, il protagonista aggiusta il suo corpo danneggiato con rottami e frammenti tecnologici, nel secondo, un uomo è attaccato da schede a circuiti finché non ne è completamente ricoperto. Nonostante i due protagonisti diventino mostri meccanici, le loro trasformazioni dolorose e innaturali gli permettono di sentire un forte legame con un grande varietà di persone(2). Considerata l’immagine negativa della tecnologia che Core Dump restituisce, come si può spiegare questo risultato? Inoltre, la necessità di “creare me stesso all’infinito” (3), attraverso degli scarti tecnologici, del protagonista del video ambientato a Dakar mi fa pensare alla possibilità che i cyborg siano il prossimo passo dell’evoluzione umana: questo è un futuro concepibile nella tua visione?

In questi video volevo indagare quali accordi politici rendono possibile l’estrazione dei minerali dalle terre rare in Africa Centrale, il loro trasporto da una parte all’altra dell’oceano fino in Cina, in Europa e negli Stati Uniti sotto forma di diversi dispositivi, per poi essere abbandonati nuovamente sulla costa ovest dell’Africa, dove continuano a circolare come metalli pesanti nel sangue delle persone che lavorano e vivono vicino alle discariche. Una scena di Core Dump che credo rappresenti bene tutto ciò è quella che hai menzionato: a Dakar, un computer rotto esplode in faccia a un riparatore di apparecchi elettronici. Egli è costretto a integrare componenti del macchinario nel suo corpo al fine di rimanere in vita – così l’uomo dipende dalla macchina per “funzionare”. Diventa un misterioso insieme tecno-fisico di rifiuti elettronici, un cyborg che indossa una maschera Africana. Mentre si fonde con la macchina il suo corpo diventa vulnerabile alla dissoluzione delle categorie di razza, classe, nazione e genere.

Questa trasformazione è un processo cosciente e infinito di ingegneria, diventa un modo per sfuggire alla condizione di prigioniero della storia. Si tratta di un rapporto costruito e sostenuto a partire dal commercio degli schiavi della tratta Atlantica, che ha stabilito i confini tra razza e tecnologia, natura e civiltà, favorendo l’istituzione di un sistema duraturo di sfruttamento e controllo. Penso che la nostra connessione con la materialità stia diminuendo, mentre la nostra vicinanza all’immateriale, o al digitale, stia crescendo. Abbiamo sempre più informazioni, ma riusciamo sempre meno a utilizzarle, dal momento che la quantità dei dati è schiacciante. L’uso degli scarti elettronici nei miei costumi e sculture è sempre volto a riportare le realtà materiali all’attenzione e visione dello spettatore, ricordandoci che la tecnologia non è qualcosa di distaccato e immateriale, nascosto da qualche parte nel cloud o in un centro dati.

Questo contenuto è stato realizzato da Eleonora L. Savorelli per Forme Uniche.

NOTE

[1] Dakar, min. 11:35

[2] “Quanto vengono elaborati, evocano immagini e voci che fluiscono attraverso di me come se stessi canalizzando gli antenati della mia carne (…)” (Dakar, min. 9:42). “Mentre le schede a circuiti si insinuavano nella sua carne, si sentiva connesso ad ogni mano che le aveva modellate” (Shenzhen, min. 8:24).

[3] Dakar, min. 4:51

https://www.instagram.com/francois.knoetze/

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https://www.instagram.com/galleriaramo/

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