L’hanno chiamata la Biennale delle donne, ha presentato 1433 opere, 213 artisti provenienti da 58 nazioni, con una presenza femminile dell’80 per cento
Nella Biennale tornata dopo la pandemia c’era tanta cultura nera e gusto tribale. C’era il corpo raccontato nelle sue varie declinazioni, e poi c’erano le arti applicate come il ricamo e il linguaggio grafico, passato e futuro. E c’era tanto colore, tutti i colori del mondo. Ma non è questo che ha connotato l’ultima edizione, la numero 59. Era quello che ti regalava, il tuo sguardo, uno sguardo diverso, come se il filo del racconto cercasse qualcosa che credevi di non aver mai visto. L’hanno chiamata la Biennale delle donne, e in effetti dentro a una mostra che ha presentato 1433 opere, fra i 213 artisti, provenienti da 58 nazioni, la presenza femminile è stata da record, dell’80 per cento. I giornalisti fanno presto a mettere le etichette. E’ un modo per semplificare il racconto.
La prima volta
Però, è vero che tra tutto quello che abbiamo visto, fra quegli scenari futuristici e i mondi onirici, quelle maschere apotropaiche e le creature mitologiche, dentro alla luce e al buio, il silenzio e il rumore, nei misteri e nei segreti incomprensibili della bellezza, in mezzo a tutto questo universo parallelo e incantevole, questa è stata anche la prima volta che l’esposizione principale della rassegna è stata dedicata prevalentemente alle donne, all’identità di genere nel suo senso più assoluto. Ci sono state tante altre prime volte quest’anno. Non era mai successo che un’artista nera britannica vincesse il Leone d’oro per il Miglior Padiglione nazionale. Che un Paese invasore, la Russia, sprangasse il suo spazio chiudendo i battenti con una dedica speciale all’Ucraina. E che la Biennale tornasse dopo essersi fermata per una pandemia, non per una guerra mondiale.
Ma ogni volta che ci addentravamo nel suo percorso, lo sguardo non poteva che essere diverso. Sin dall’inizio, dal titolo, The milk of dreams, Il latte dei sogni, che Cecilia Alemani, la curatrice italiana residente a New York, ha scelto per la mostra internazionale. Prendendolo da un libricino di Leonora Carrington, nobildonna inglese che si è fatta largo come scrittrice e pittrice nelle file del movimento surrealista. Una raccolta di favole avvolte in una loro dimensione onirica, lungo un viaggio immaginario attraverso la metamorfosi del corpo nella ricerca della propria identità. Sono le storielle che lei proponeva e disegnava ai suoi bambini per metterli a letto. Durante la sua seconda vita, in Messico, quando si era risposata. Brevi narrazioni per lo più crudeli, di senso inatteso, come quella della strega che taglia le teste ai bambini e dell’indio stupido che gliele rimonta a casaccio.
Il latte dei sogni
E quel latte dei sogni, in cui l’innocenza fantastica dell’infanzia cerca riparo nell’universo visionario del sogno, nella sua dimensione ludica, che è insieme umana e mostruosa, Cecilia Alemani ha voluto spargerlo lungo tutto il tragitto della rassegna, assieme alla figura della Carrington, lady inglese di salotti buoni e di profumi popolareschi, che era riuscita ad assicurarsi la benedizione e la stima del padre fondatore del surrealismo, André Breton, e dei suoi seguaci, divenendo poi una madrina del femminismo. Già dalla partenza dell’Arsenale, tutto questo è sembrato subito evidente, con la statua di un’elefantessa africana che troneggiava nella rotonda d’ingresso, il calco di un esemplare imbalsamato, firmato da Katharina Fritsch, iperrealista tedesca, che ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.
In quel monumento piazzato all’inizio del percorso c’era già il senso della rassegna e il suo motivo ricorrente: l’Africa nera, con i suoi miti e le sue fantasie tribali in cerca di riscatto dopo i grandi saccheggi delle colonie, raffigurata in una specie dove sono le femmine a guidare il branco. Un messaggio di morte e di rinascita, che è ritornato di continuo, nei diafani corpi di vetro di figure mutanti della rumena Andrea Ursula, nell’immaginario indigeno della cilena Cecilia Vicuna, fuggita dal Cile di Pinochet per riparare a Manhattan, o nelle divinità di Mrinalini Mukherjee, che ha saputo piegare le tecniche dell’artigianato indiano alle sue esigenze espressive, costruendo oggetti biomorfi, forme grottesche abbastanza inquietanti, in corpi che indicano stati di metamorfosi e trasfigurazione.
Donne sconfitte
In questa fuga verso l’incanto, questa visione immaginifica di una realtà trasfigurata dalle radici popolari, c’è la “culla delle streghe”, che sono Leonora Carrington e le altre artiste, come Dorothea Tanning e Remedios Varo o Paula Rego con le sue donne sconfitte, animalesche, così poco femminili, arruolate nel magma del surrealismo. Fattucchiere del pennello e incantesimi dell’arte che si incrociano con le rivendicazioni delle donne attraverso fantasie e nostalgie popolari del Terzo Mondo.
Ma la storia femminile nell’arte è una narrazione spesso misconosciuta. Nel suo libro, L’arte è donna, Elisabetta Bodini presenta una carrellata di artiste. Che parte dalle ricamatrici del Medioevo, dell’arazzo di Bayeux, per seguire poi le monache tra cui Hildegard von Bingen. E salire nei secoli fino ad arrivare al Novecento, passando da Sofonisba Anguissola e Frida Kahlo.
Biennale, un mondo parallelo
Le prime famose sono state Lavinia Fontana, che ereditò la passione da suo padre Prospero, pittore, con una bottega tutta sua, e si sposò con una clausola che le permetteva di continuare la sua carriera artistica, e Artemisia Gentileschi, figlia pure lei di un pittore, Orazio Gentileschi, cresciuta nella lezione caravaggesca e conosciuta anche per la sua vita avventurosa e tragica, segnata da uno stupro, concluso con un processo che in pratica mandò assolto l’imputato e che lei affrontò con estremo coraggio, subendo impavida le torture senza mai ritirare le sue accuse. E a rileggere questa storia al femminile forse si capisce perché per farla conoscere la Biennale ha dovuto attraversare un mondo parallelo, di sottomissioni e sconfitte, che trova il suo riscatto solo in una visione di magia esoterica.