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“Una fiaba sulla solitudine dell’esistere”: perché Bones and All è la voce di una generazione

bones e all (wikipedia)
Bones and All (Wikipedia)

Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management dell’Arte e dei Beni Culturali, tenuto tra novembre e dicembre 2022 da Luca Zuccala, direttore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.

Una fiaba sulla solitudine dell’esistere e contemporaneamente su come spezzare questa solitudine attraverso l’essere guardati da un altro. Tra tutti i miei lavori quello che affronta in maniera più diretta la solitudine come può essere quella di una figura che si staglia nella vastità di un vuoto.”

È così che Luca Guadagnino presenta la sua ultima opera che gli è valsa il Leone d’argento – premio per la miglior regia a Venezia 79 – Bones and All, nelle sale dal 23 novembre scorso.

Un road trip di due anime solitarie, due eaters, nel mezzo del Midwest Reagenista in cerca di una risposta. Maren (Taylor Russel), abbandonata dal padre, parte alla ricerca della madre in una società che la disprezza, Lee (Timothée Chalamet) è un vagabondo solitario, il loro incontro stravolgerà i loro piani. Due cannibali teneramente sorpresi da una storia d’amore scopriranno che non esiste strada o distanza capace di allontanarli dal loro passato.

Road movie, horror, coming-of-age movie, tante sono le etichette possibili per questo film, sicuramente è l’amore a tenere le fila della storia, un amore tragico, romantico, violento, fisico che attraverso un percorso a tappe ridefinisce l’identità dei due in merito a “chi sei” e non “cosa sei”. Maren e Lee si amano perché riescono a vedersi per quello che sono, ed è qui che la conclusione trova spiegazione: quando Maren decide di mangiare Lee fino all’osso è la consacrazione finale del loro amore. Questa parte del film viene anticipata dall’incontro che i due protagonisti fanno con Jake (Michael Stuhlbarg) e Brad (David Gordon Green), sarà infatti Jake a introdurre ai due il concetto di mangiare qualcuno “fino all’osso”, solo così riusciranno a cambiare le loro vite, come un rito di iniziazione. Mangiare Lee fino all’osso diventa simbolo del “viaggio” compiuto dalla ragazza, ora in grado di sopravvivere da sola e di andare avanti con la sua vita, anche senza l’appoggio di qualcun altro. Ma il cibarsi di Lee, per Maren, è anche un modo per portarlo per sempre con sé, il suo grande amore.

Secondo Taylor Russel “Il finale è incredibilmente romantico perché è un regalo che lui fa a lei, conoscendo la struttura di queste due persone, questa afflizione che hanno. È l’atto più amorevole possibile”.

Il cannibalismo diventa metafora e pretesto per affrontare il tema dell’alterità e dell’estraneità che, in giovinezza, colpisce tutti, quel momento in cui ci si rende conto che il futuro è incerto, il mondo è ingiusto e ciò che rimane non è nient’altro che dubbi, i due protagonisti rappresentano tutte quelle persone che sentono di non appartenere a niente, “Vedo questo film come una meditazione su chi siamo e come possiamo superare quello che sentiamo, soprattutto se si tratta di qualcosa che non riusciamo a controllare. Infine, e soprattutto, quando riusciremo a ritrovarci nello sguardo dell’altro?” Dice Guadagnino.

Non dimentichiamoci che ci troviamo nell’America di Reagan, agli americani non rimanevano che promesse disattese e il personaggio di Sully (Mark Rylance) incarna perfettamente il simbolo della disintegrazione socio-culturale del tempo: in un primo momento parrebbe quasi rappresentare il Virgilio nel percorso di scoperta della propria natura di Maren, ma nell’ultima parte del film si rivelerà essere metafora di quei genitori che rifiutano l’evoluzione della nostra società accrescendo le sofferenze dei figli, ci troviamo davanti alla personificazione dell’ipocrisia del modo di vivere il tempo che rappresenta.

Nonostante venga definita l’opera più americana di Luca Guadagnino, il regista ci tiene a specificare “l’italianità” che caratterizza questo film, l’uso della metafora del viaggio come percorso di formazione è un tema ricorrente del cinema americano ma qui, Guadagnino, rappresentando gli scenari desolati e alienanti dell’America continentale, dove la componente umana è marginale, sottolinea l’importanza di non essere rasserenanti nei confronti di questi luoghi, “la nostra missione era quella di cercare con tutte le forze di non essere sopra quei luoghi, ma accanto, vicino ad essi, alla loro stessa altezza”, grazie allo studio diretto dei lavori dell’artista americano William Eggleston. Difatti, elemento caratteristico della regia dell’autore è la dilatazione dei tempi narrativi che qui trovano massima espressione, l’opera non vive dell’urgenza del racconto ma presenta momenti di respiro che restituiscono tutta la bellezza degli attori immersi nel paesaggio che li circonda.

In conclusione, è opportuno citare il modo in cui il regista decidere di chiudere il film, non è infatti la natura da predatrice di Maren a fare da sfondo alla chiusura, al contrario, troviamo i due innamorati sulla collina dove è ambientata una delle scene più emozionanti del film, quando Lee era ancora in vita. È questo che Guadagnino vuole dirci, l’amore per Lee è stata la cosa migliore che potesse capitare nella vita di Maren.

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