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Un teatrino della morte di Gaetano Zumbo in asta da Bertolami Fine Art

Mercoledì 7 dicembre, nel corso della seconda giornata che Bertolami Fine Art dedica a una grande vendita di gioielli, orologi, argenti e avori antichi, sarà esitata anche una scelta collezione di memento mori

I lotti che la compongono – solo dieci – si fanno notare, vuoi per le suggestioni wunderkammer che non mancano mai di affascinare il pubblico, vuoi per la presenza di un raro teatrino della morte del siracusano Gaetano Giulio Zumbo (1656-1701), ineguagliato caposcuola della spettacolare ceroplastica barocca e anche probabile iniziatore della applicazione di questa tecnica artistica allo studio dell’anatomia umana, una scienza in quegli anni in grande espansione e che molto si avvantaggiò dell’introduzione di iperrealistici modelli di studio in cera in sostituzione degli antichi “spellati”, i modelli anatomici ricavati dalla mummificazione dei cadaveri. 

L’opera – custodita, come d’uso per questa fragile tipologia di manufatti, all’interno di una teca in legno e vetro – si presenta in stato di perfetta conservazione, una circostanza che rende ancora più felice la sua acquisizione al purtroppo scarno catalogo del sulfureo abate, tutto centrato su quattro capolavori oggi conservati in quel luogo mirabile che è la Specola di Firenze, uno dei musei di Storia naturale più antichi del mondo, nonché depositario della più importante collezione di modelli anatomici in cera mai esistita. 

“Busto anatomico con verminaio” (1699-1700):
un nuovo tassello alla conoscenza di un artista misterioso

Paolo Giansiracusa, uno dei critici di riferimento negli studi su Zumbo, definisce la recente scoperta dell’opera in vendita da Bertolami Fine Artdi straordinario valore per la storia dell’arte” perché “aggiunge un altro tassello alla vicenda artistica di uno dei più geniali autori dell’età barocca”.  

E di questi tasselli, quando si parla dell’abate Zumbo, ce n’è davvero bisogno perché la vita di quel pur famosissimo artista è avvolta nel mistero e poche sono le opere con certezza documentate come sue giunte sino a noi.

Travagliata fortuna critica di un esteta dell’orrore

La penuria di opere conservate trova sicuramente una spiegazione nel combinato tra modalità esecutive dell’artista – poco prolifico perché ossessionato dalla ricerca della perfezione – e strutturale caducità del materiale impiegato, la cera. Due elementi a cui il radicale cambiamento del gusto determinatosi dall’inizio del XIX secolo ha aggiunto un rovinoso azzeramento del valore attribuito a lavori prima celebrati come eccelsi e poi sepolti con imbarazzo in cantina, sino alla cancellazione della loro stessa memoria.   

Se ancora alla fine del ‘700 il Marchese De Sade esaltava come un pregio impareggiabile il realismo delle cupe composizioni eseguite “in cera colorata così al naturale, che la natura non saprebbe essere né più espressiva né più vera”, non più di cinquant’anni dopo quella stessa aderenza alla realtà veniva ritenuta orribile da un letterato del calibro di Nathaniel Hawthorne che liquidava come “turpissima” tutta la produzione di Zumbo. 

Ci sono voluti più di centocinquanta anni per far riaffiorare dall’oblio l’incredibile vicenda umana e artistica del siciliano per cui si aprirono le porte della corte medicea e della Versailles del Re Sole. L’operazione di recupero critico è ascrivibile a uno scelto manipolo di critici della seconda metà del ‘900, tra cui si segnalano soprattutto Mario Praz e François Cagnetta.    

Successi e misteri di un presepista della morte

Scultore siciliano isolato e di passaggio dovunque vada, a Firenze come a Parigi”. Nella felice definizione di François Cagnetta c’è la sintesi dell’irrisolto segreto che circonda Gaetano Zumbo: un artista di immenso successo che vive una breve vita da uomo in fuga. 

La cifra del mistero segna ogni fase della sua vita, dalla nascita alla morte. Il suo cognome, Zummo, poi francesizzato in Zumbo, è quello di una nobile famiglia siracusana estinta però tredici anni prima della sua nascita. Nobile in realtà si è sempre dichiarato e lo ritengono tale anche i Gesuiti del collegio che frequenta per diventare abate, un istituto che ammette solo studenti di nobili natali, ma tutto porta a pensare che fosse il figlio di uno schiavo affrancato e adottato dall’ultimo dei membri del casato di cui portava il cognome. 

La sua adolescenza è segnata dall’incubo della feroce epidemia di tifo che falcidia la popolazione di Siracusa nel 1672, un trauma che riproduce compulsivamente in molti dei suoi celebrati teatrini della morte.

Nel 1687, la prima fuga alla volta di Napoli “a cagione di un fastidioso accidente”, scrive un biografo settecentesco. Il soggiorno napoletano influenza profondamente la sua produzione artistica, qui trova i suoi modelli di riferimento compresa quell’arte presepiale in cui certamente si cimenta, preferendo però declinarla al negativo, in una serie di presepi anti natalizi della malattia, della morte e della putrefazione della carne. 

Una delle sue composizioni napoletane suscita l’interesse di un agente del Granduca di Toscana, Cosimo III de’ Medici, che lo invita a Firenze. In quella corte dal gusto profondamente barocco la sua teatrale estetica dell’orrore incontra immenso successo. Zumbo si ferma in quel porto sicuro dal 1691 al 1694, poi, con gran dolore del granduca, si sposta a Bologna. 

Nella città universitaria si apre all’interesse per gli studi anatomici avviando il secondo filone della sua attività di ceroplastico, quella della produzione di modelli anatomici osannati dagli scienziati per il loro palpitante realismo. Ed è probabilmente a Bologna che incontra uno degli uomini del suo destino, il chirurgo-anatomista Guillaume Desnoues 

Desnoues lo invita a Genova, la città in cui esercita la sua professione e che sarà teatro, sino al 1699, di una fortunata collaborazione nella produzione e vendita di modelli anatomici in cera. 

Il connubio si spezza per violenti dissapori tra i due soci e il nostro abate si sposta in Francia, a Marsiglia, sempre baciato dal successo, preceduto da una fama che si ingigantisce a ogni tappa del suo inquieto viaggio. 

L’ultima sosta è quella più prestigiosa: chiamato a Parigi da Luigi XIV nel maggio del 1701, ottiene a inizio agosto il monopolio per la produzione nel regno di modelli anatomici in cera e, alla fine del mese, il permesso di tenere lezioni alla Sorbona. Il fratello del re lo adora e per lui si aprono le porte dei salotti più esclusivi. 

Il 22 dicembre, quest’uomo sanissimo di soli 45 anni, muore per un “ascesso di fegato che lo soffoca “. Così recita l’autopsia, ma più di uno storico della medicina ha rilevato nella descrizione dei medici francesi la piena compatibilità con i sintomi indotti dall’avvelenamento da arsenico.  

   

Tra arte e scienza

Nel costante contrappunto tra un virtuosismo artistico dalle forti accentuazioni teatrali e analitica osservazione scientifica, Zumbo si rivela un figlio esemplare del suo secolo, quello di Galileo e della Santa Inquisizione. Eppure la sua tecnica eccelsa, nutrita da costanti sperimentazioni sullo stile e sul colore lo distanzia tal punto dagli artisti che si cimentano nel suo stesso campo da farne un isolato. 

Ratti, vermi e scarafaggi:  morte e resurrezione nell’opera di Gaetano Zumbo

Per la cera in asta da Bertolami, Paolo Giansiracusa propone una datazione tra 1699 e 1700, sarebbe quindi stata realizzata durante il soggiorno a Marsiglia, quando, grazie alla protezione dell’Intendente della Marina di Luigi XIV, Zumbo può condurre i suoi studi e le sue sperimentazioni su quaranta cadaveri fatti arrivare per lui da tutti gli ospedali della città.  

La composizione è un felice esempio di quell’estetica del disgusto che ammaliò i contemporanei del grande ceraiolo e, dai primi dell’800, oltraggiò i delicati palati dei cultori del nuovo gusto neoclassico. Le parole di De Sade riecheggiano di fronte al feroce spettacolo di una testa in decomposizione aggredita da ratti, blatte e vermi: “L’impressione di fronte a questo capolavoro è così forte che i sensi sembrano darsi l’allarme l’un l’altro: senza volere ci si porta la mano al naso”. In realtà però un’attenta lettura dell’iconografia scelta per l’opera rivela un messaggio di speranza e la possibilità di un destino di salvezza anche per quel giovane uomo di cui le profonde ferite al collo e al viso tradiscono una morte violenta. Se infatti il ratto e i neri scarafaggi sono dei negativi simboli di morte, i vermi e la falena parlano della metamorfosi di una creatura che nasce strisciando ma è destinata al volo e le ossa che si intravedono sotto le carni in disfacimento sono un incorruttibile simbolo di vita eterna. 

C’è una speranza di vita anche nei Presepi della morte del terribile abate Zumbo.   

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