Jan Fabre protagonista ne La saggezza del Belgio. L’esposizione presenta una trentina di disegni di piccolo formato della serie Folklore Sexuel Belge e Mer du Nord Sexuelle Belge e una decina di sculture, per la prima volta esposte in Italia. Alla Galleria Gaburro di Milano, dal 2 dicembre 2022 al 12 febbraio 2023.
Lo straniamento sopraggiunge lentamente. Certo, una ripetuta e incessante musica folkloristica belga, proveniente da un coloratissimo organetto, introduce in modo eloquente ai temi della mostra. Soprattutto quando, incuriositi, ci si avvicina allo strumento. Qui non si scorgeranno elementi devozionali o tradizionali, bensì varie forme genitali. Peni, vagine, tube di Falloppio, spermatozoi, seni, natiche. Tutto patinato da morbidi tessuti gialli e viola. Poca discrezione, insomma. Tanto che sugli stessi toni si erige, dalla parte opposta della sala, una Madonna poco convenzionale. Vuoi perché ricoperta di paillette – forse un’eco del passato da teatrante di Fabre – oppure perché tra le mani regge una marionetta del diavolo. Per l’occasione a lei soggiogato, per via della santità che la contraddistingue, o forse perché, in questo caso, anche Maria ha intrapreso una via più dissoluta.
Eppure, come accennato, tale carica dissacrante non è immediatamente percepibile. Ad assorbire l’attenzione, in prima battuta, è la lunga fila di disegni che Fabre ha realizzato (con matite colorate) per poi inscrivere in una sorta di doppia cornice. Una classica in oro, perimetrale; più una seconda, un foglio di velluto rosso, che avvolge le opere esaltandole. Ma allo stesso tempo le cela a uno sguardo distante. Il primo impatto è quello di una sorta di linea rossa, che percorre l’intero percorso della mostra e avvolge le sculture, terzo atto dell’esposizione, al suo interno. É con queste che si svela definitivamente il tema sessuale, che pervade i soggetti marini trasfigurandoli in insolite chimere del desiderio. Stelle marine appuntite all’esterno e dotate di vagina all’interno; conchiglie che nascondono lingue, conchiglie che nascondono labbra.
Ora l’abbiamo inteso. Jan Fabre ci ha portato dentro un mondo che è passato al vaglio del surrealismo. Le forme hanno perso le condizioni di realtà, si abbandonano a un desiderio che muta sembianze e funzioni. Così si liberano pensieri inconsci, repressi, ben celati (ma sempre presenti) in tante (forse tutte?) delle nostre attività quotidiane. É forse questo che vuole suggerirci l’artista in questa mostra, La saggezza del Belgio, che potrebbe benissimo chiamarsi La saggezza e la sessualità in Belgio. Perché difatti le varie serie di opere esposte incontrano queste due dimensioni: la tradizione folkloristica, con i suoi riti codificati, e la carica erotica miscelata ad essa, più o meno esplicita a seconda delle occasioni.
Insieme a tale cortocircuito, se vogliamo intimo e personale, se ne affiancano altri di natura sociale, quasi politica, che evidenziano l’anima tripartita del Belgio, ma anche il suo passato coloniale. Un aspetto oggi più che mai al vaglio di una tardiva presa di coscienza. Due aspetti che, in un nuovo paradosso offerto dalla mostra, paiono diventare occasioni d’incontro più che di separazione.
A partire dalla presenza di tre comunità sul territorio belga: fiamminga, vallone e quella di lingua tedesca. Aree a loro volta internamente ancora più frammentate. Una diversità in cui Fabre cerca di ritrovare saggezza e unità, per proporre ciò che può “connettere piuttosto che dividere”. Lo fa, per mezzo dei disegni, esprimendo la trasversalità di alcune usanze e la sottotrama erotica che le pervade. La stessa che, con indiscutibile carica dissacrante, finisce per pervadere ogni sfera dell’umano, fino a coinvolgere anche quella religiosa. Fabre sottopone ogni cosa a un rovesciamento di senso, servendosi spesso del riferimento al carnevale quale azione di sospensione e rovesciamento della realtà.
Un’azione in cui il curatore Giacinto Di Pietrantonio scorge l’influenza del più surrealista dei rinascimentali, Hieronymus Bosch (in mostra proprio in queste settimane a Palazzo Reale).
L’iconografia e l’iconologia dei disegni e delle sculture di Fabre in mostra sembrano infatti uscire dai quadri dell’eretico artista rinascimentale fiammingo, dove elementi marini come conchiglie, uomini, animali e piante subiscono surreali e simboliche metamorfosi umano-animale in un’orgia di colori, forme e sessualità che Fabre rilegge saggiamente anche alla luce delle trasformazioni delle culture popolari.
A ciò si aggiunge un ulteriore elemento. Su ogni disegno campeggia la spiritosa scritta ÉDITÉ ET OFFERT PAR JAN FABRE LE BON ARTISTE BELGE (Pubblicato e offerto da Jan Fabre, il bravo artista belga) che fa ricorso alla frase pubblicitaria della cioccolata “Côte D’OR, Le Bon Chocolat Belge” riportata sulle cartoline con immagini del folklore belga allegate negli anni sessanta alla nota cioccolata, forte simbolo alimentare identitario sovranazionale del Belgio. Fabre sceglie tuttavia di accompagnare i disegni con questa definizione non solo per la dolcezza che la cioccolata esprime, ma metaforicamente anche per il suo “lato oscuro”, in quanto nasce dal colonialismo belga in Congo, tema su cui l’artista lavora da anni.
Ecco dunque che la mostra pare un andirivieni tra alto e basso, tra tradizione e dissacrazione, tra riferimenti classici e derisioni contemporanee. Un approccio che potrà forse apparire fastidioso ai puristi e integralisti, ma che in fin dei conti fornisce una rilettura – narrativa e visuale – alternativa a una tradizione che altrimenti rischierebbe di scivolare nell’anacronismo. E invece qui si riprende il suo spazio, con inventiva e leggerezza.