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Intervista a Benyamin Reich: La buona arte è dotata di corpo e anima, ma la sua bellezza si trova nel vento che soffia tra loro

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Nasce una nuova ambiziosa collaborazione tra due magazine che da anni si occupano di arte e cultura. Black Camera atterra su ArtsLife con una nuova sezione totalmente dedicata alla fotografia e alla cultura delle immagini.

«La buona arte è dotata di corpo e anima, ma la sua bellezza si trova nel vento che soffia tra loro». Lo dice Benyamin Reich, fotografo che utilizza l’immagine come strumento di indagine interiore dell’uomo. Lo abbiamo intervistato

La fotografia è quel linguaggio artistico e tecnico che ci permette di definire, di volta in volta, le diverse fasi del nostro stare al mondo. Scattare una fotografia può definire la nostra relazione con gli altri, ma anche con noi stessi. Nella ricerca artistica di Benyamin Reich, l’atto di fotografare diviene strumento di indagine interiore dell’uomo, che trasforma il racconto individuale in esperienza umana collettiva, inglobando storia, religione e desiderio. Lo abbiamo intervistato.

Ogni tanto mi piace cominciare le interviste da aspetti che cercano di definire chi è il personaggio con cui parlo, per cui ti chiedo: chi è Benyamin Reich? Parte della tua storia affonda le radici allinterno dellebraismo ultraortodosso, nella comunità chassidica di Bnei Bark, nei pressi di Tel Aviv. Queste realtà, estremamente complesse, sono caratterizzate da una rigida, e letterale, interpretazione della dottrina religiosa e da un rifiuto nei confronti della modernità. In questo contesto, come ti sei approcciato allarte e alla fotografia, e, soprattutto, come tutto questo ha influito sul tuo essere artista? 

È difficile dare una risposta precisa, anche se mi vengono poste regolarmente domande di questo tipo. Spero che la scena che segue renda parzialmente accessibili alcuni dei miei sentimenti e pensieri in merito. Immaginate un ragazzo di 17 anni e mezzo che si presenta al comitato di ammissione di una nota scuola d’arte di Parigi, l’École des beaux-arts, e chiede di essere ammesso a questo istituto di alta formazione. Porta con sé alcune foto in bianco e nero che ha scattato e stampato durante l’anno di permanenza in città, dopo aver lasciato il mondo ultraortodosso della sua infanzia in Israele. Non ha un diploma di scuola superiore né alcuna conoscenza dell’arte, delle sue diverse scuole di pensiero, delle tecniche e della storia. Porta con sé solo il desiderio di entrare nel mondo della cultura parigina. Alla domanda del comitato di ammissione che gli chiede perché dovrebbero considerare di ammetterlo, risponde che gli dispiace di non conoscere nulla del loro mondo. Tutta la sua vita l’ha trascorsa nella Cheder e alla Yeshiva, dove ha studiato solo il canone della letteratura sacra ebraica, nient’altro, ma è convinto che valga la pena lasciare quel mondo per dedicarsi all’arte. La commissione accetta quel giovane. Lentamente conosce gli insegnanti, come Christian Boltanski e altri, ma il tempo trascorso alla scuola d’arte non solleva il velo di confusione che lo accompagna fin dall’infanzia. Dopo due anni, si stufa dell’atmosfera borghese ed elitaria della scuola e la abbandona. Questo giovane sono io, e per molti versi penso, sento e lavoro ancora oggi come allora. Mi trovo in un luogo di esilio perpetuo, a chiedermi chi sono, perso tra il mondo religioso e quello secolare, e a pormi sempre le stesse domande.

Divine-Connection
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Alcuni tuoi argomenti di ricerca sono: lomosessualità rifiutata allinterno della comunità ebraica e gli stereotipi che tuttora si abbattono sulla comunità stessa. Come affronti artisticamente ed esteticamente queste tematiche? Oggi, nel 2022, è cambiato qualcosa?
Sì, molte cose sono cambiate, ma molte altre no. Ci ho ancora a che fare, ma meno oggi rispetto a quindici anni fa. Vivo a Berlino, una città pluralista con una varietà relativamente ampia di caratteri e culture, lontana dalla bolla israeliana in cui sono cresciuto. Tuttavia, molte delle persone a me più vicine oggi sono ancora quelle che hanno lasciato il mondo ortodosso per quello occidentale, e gran parte dei miei ritratti hanno a che fare con loro, come Deborah Feldman, che ha scritto il libro su cui si è basata la serie Netflix “Unorthodox”, Abby Stein, un’attivista transgender ex chassidica, che ha scritto il libro “Becoming Eve”, o Akiva, un ex rabbino chassidico che ha aperto una yeshiva in Germania per gli ebrei ex ultraortodossi che cercano di costruirsi una nuova vita e un nuovo futuro. Negli ultimi anni ho lavorato a un progetto fotografico sulle statue classiche in Europa, sulla loro storia e su come influenzano e sfidano la nostra comprensione dell’estetica. Sono particolarmente interessato a quelle che hanno un “passato oscuro”, ad esempio le statue di Georg Kolbe, scultore vicino a Hitler. Nella foto potete vedere una di queste sculture, realizzata per i Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Sorprendentemente, Kolbe utilizzò una modella ebrea, cosa che ho cercato di rendere esplicita. Oppure un’altra scultura di Apollo che faceva parte della collezione privata di Hermann Göring. Questo progetto ha una rilevanza personale per me, in quanto ebreo e artista che vive in Germania e che sente per sé il significato esistenziale della storia dell’arte europea, ma è anche ricco di rilevanza contemporanea per il fenomeno della “cultura dell’annullamento”.

Osservando le tue fotografie percepisco un forte senso di vulnerabilità; immagini che oscillano tra il pensiero e il sentimento, capaci di generare nuovi significati. Cosa vogliono raccontare allosservatore?
Sì, questa parola coglie molto bene uno dei motivi ricorrenti che, consciamente o inconsciamente, inserisco in alcune delle mie fotografie: la vulnerabilità. Nella fotografia di ritratto, e in tutti i lavori fotografici che hanno a che fare con l’uomo e l’esternazione della sua psiche, apprezzo quegli artisti che utilizzano l’aspetto della vulnerabilità – propria e dei modelli – come elemento principale del loro lavoro. Oserò, o meglio proverò, a rispondere in modo un po’ semplicistico ma comunque poetico: ai miei occhi, la buona arte ha sia un corpo che un’anima; ma la sua bellezza si trova nel vento che soffia tra loro. Per dirla in modo un po’ più concreto: penso che ogni spettatore abbia un proprio mondo e una propria visione; quindi, le immagini hanno un significato diverso per i diversi amanti dell’arte. L’arte, anche nelle sue forme non astratte, è in parte un’attività comunicativa. Un’opera d’arte può fornire linee guida su come l’artista desidera che sia percepita, ma alla fine il suo significato sarà determinato attraverso un processo di comunicazione individualizzato con ogni spettatore. L’arte è un’arma a doppio taglio. Il modo in cui l’opera viene recepita è in ultima analisi al di fuori del controllo dell’artista. L’artista può solo sperare nel meglio.

Cosa differenzia, per te, una semplice immagine da una fotografia? 

Forse il modo più semplice per rispondere è attraverso una mia immagine concreta. Prendiamo l’opera Divine Connection; nella scena vediamo una giovane coppia seduta sul letto, la cui coperta e i cui cuscini sono decorati con disegni di fiori. Sembra un’immagine casuale di una coppia appena sposata. Ma in fondo non si tratta di un’immagine casuale, perché la coppia è ebrea chassidica; quindi, evoca nello spettatore uno sguardo più lungo. Ci sono altri elementi nella foto che fanno sì che l’occhio si soffermi più a lungo su questa immagine, anche se alcuni di essi saranno evidenti solo a chi proviene dal mondo ultraortodosso. Un tale spettatore guarderà attentamente le mani congiunte della coppia e si chiederà se la foto sia reale, perché il loro abbigliamento indica che appartengono a un piccolo gruppo molto radicale della comunità ultraortodossa di Meah Shearim, a Gerusalemme, che difficilmente si fa fotografare e certamente non si terrebbe per mano in camera da letto. D’altra parte, la foto potrebbe risuonare con i dipinti olandesi per una persona occidentale che è stata in uno o due musei nella sua vita. Ed è proprio questa la particolarità di questa fotografia. Unisce mondi molto diversi, anche se in modo molto sottile, portando allo spettatore culture ed epoche della storia umana molto diverse e cercando di elaborare gli aspetti universali di tutte queste fonti che l’hanno generata. Non è una fotografia documentaria né una messa in scena. Conoscete il detto “un’immagine vale più di mille parole”. Credo che questo sia vero, ma non si può dire di tutte le foto. Ci sono parole e parole. In realtà non ho una risposta diretta per te; perché una foto “semplice” può essere molto complicata.

Träume der Dritten Generation Dreams of Third Generation
Träume der Dritten Generation
Dreams of Third Generation

La storia delluomo è stata, e probabilmente sarà, caratterizzata da eventi incomprensibili, uno su tutti lolocausto. Nel tuo lavoro ho come limpressione che ti focalizzi sulle tracce che sono rimaste e che si sono tramandate, invece di affrontare una narrazione storica di questa tragedia. Sbaglio?  E ancora, come larte può aiutarci a capire lincomprensibile?

Non sono né uno storico né uno scrittore. Il mio modo di essere artista è quello di relazionarmi con le cose che mi riguardano, attraverso la creazione artistica. I miei riferimenti all’Olocausto sono personali, per via della mia storia familiare, ma anche perché le tracce dell’Olocausto sono percepibili anche nelle terze e quarte generazioni di discendenti, sia delle vittime che dei carnefici. E sento il bisogno di affrontare questi livelli psicologici, pesi, eredità in modo estetizzante. Questo è l’unico linguaggio che conosco. Sfumando i confini tra passato e presente ed elaborando di volta in volta i conflitti interiori degli esseri umani, cerco di sfidare lo spettatore creando in lui dei dubbi. Credo che la mia vita si basi proprio su questa ricerca di un luogo tra bellezza e pericolo, tra la vulnerabilità dell’estetica e l’estetica della vulnerabilità.

Qual è, secondo te, il significato più profondo della fotografia?

Penso che la fotografia abbia molti significati e che le sue caratteristiche differiscano a seconda dell’artista. Ma per me la caratteristica più significativa della fotografia è la verità. Lo so, è una parola grossa. E non la intendo nel senso che la fotografia debba essere puro realismo o addirittura una forma di documentazione del passato e del presente. Vedo piuttosto la fotografia come una diretta continuazione di quelle forme di arte visiva che hanno cercato, con strumenti e immagini diverse in ogni epoca e tempo, di riflettere sulla psiche umana, sul suo comportamento e sull’ambiente. Gli stili fotografici che si sono sviluppati nel XIX secolo e quelli del cinema nel XX secolo sono il culmine di un lungo processo di ricerca il cui obiettivo è l’esplorazione del mondo interiore degli esseri umani.

Attualmente stai lavorando a qualche nuovo progetto?

Attualmente sto lavorando a un libro che raccoglie molti dei miei lavori degli ultimi 30 anni. In passato producevo solo piccoli cataloghi che mostravano una selezione specifica del mio lavoro. Ma organizzare tutti questi lavori diversi, guardare indietro alle foto che ho scattato molti anni fa e trovare le sottili linee di coerenza, sviluppo e continuità in esse, è un processo lungo per me, che mi porta a riflettere molto su me stesso. Spero che questo libro riesca a trasmettere una panoramica più completa della mia immagine personale e artistica del mondo.

Benyamin Reich, Israele, 1976, è un artista multidisciplinare che vive e lavora a Berlino.  Proveniente da una famiglia di rabbini ultraortodossa, all’età di 17 anni si trasferisce a Parigi e frequenta l’École des beaux-arts, e successivamente l’accademia di belle arti di Bezalel a Gerusalemme. Le sue opere sono state esposte in molti musei e gallerie, e figurano nelle collezioni di importanti istituzioni quali: il Museo della fotografia Huis Marseile, i Musei ebraici di Berlino, Monaco, Basilea e Francoforte.

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