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La morte spegne la voce, ma resta il pensiero. Per Alberto Asor Rosa

Alberto Asor Rosa Alberto Asor Rosa
Alberto Asor Rosa
Alberto Asor Rosa

Asor Rosa era al servizio del pensiero più che di un’idea. Grandezza di intuito, non appannata dalle molte contraddizioni

È stato l’intellettuale più disorganico d’Italia, perché era al servizio del pensiero più che di un’idea. Un polemista appassionato che ha finito per rompere a schiaffi e insulti con tutti gli amici e abbracciare da morto lo scrittore che aveva distrutto in vita, Pier Paolo Pasolini. D’altro canto il laicissimo Alberto Asor Rosa, venuto a mancare poco prima del Natale, la festa che celebra la nascita della nostra religione, non ha mai smesso di inseguire la grandezza del suo intuito senza badare troppo alle sue contraddizioni. Docente di letteratura alla Sapienza di Roma, critico, narratore e politico, sempre irritante e provocatore nei suoi strappi ideologici. È stato comunque il primo a capire dove stava andando la nostra società, quando ai tempi della bufera ribellista degli Anni 70, in un suo libro, Le due società, contrappose l’Italia del posto fisso a quella dei precari, dei disoccupati e degli studenti lavoratori.

Il Movimento del 77 lo guardava con occhio benevolo proprio per questo, anche se l’ala più creativa lo irrideva chiamandolo “Asor palindromo”, per via del suo cognome leggibile anche al contrario. Lui spiegò una volta che si chiamava così perché “un signore bolognese, Giuseppe Rosa, intorno al 1820 aveva voluto riconoscere un figlio naturale. Ma per distinguerlo da quello legittimo aveva preposto al suo cognome quello contrario rendendoci palindromi per sempre”. E in ogni caso non era questa la sua caratteristica principale. Da polemista geniale e fegatoso, ha combattuto ogni battaglia possibile, finendo sempre per restare da solo alla fine delle liti.

Asor Rosa era nato il 23 settembre del 1933. Suo padre era un impiegato delle Ferrovie, dell’Ufficio Lavori del Ministero, a piazza della Croce Rossa, dove si occupava della sistemazione delle strade ferrate e delle linee elettriche. Era un vecchio socialista costretto a testa bassa, come socialista era stato il nonno, una passione di famiglia. Ma c’era il fascismo e allora era meglio non parlare di politica. Vivevano nel palazzo dei ferrovieri vicino a piazza Tuscolo. In un edificio che aveva più di 300 appartamenti con le finestre che si affacciavano in via Etruria, finalmente percorsa dai soldati americani che liberavano Roma nel giugno del ‘44. Se il papà poté tornare a buttarsi in politica, lui preferì restarne fuori, almeno per tutto il periodo in cui frequentò il liceo classico Augusto.

Poi nel ‘51 si iscrisse al’Università e furono le due persone a cui era più legato a fargli frequentare la cellula del Pci di Lettere, Mario Tronti (con il quale anni dopo finirà come è ovvio per bisticciare malamente) e Bianca Saletti (che diventerà sua moglie). Si iscrisse ai corsi di Natalino Sapegno, che era l’ordinario di storia della letteratura italiana, e di Carlo Muscetta. I corsi di Sapegno erano dedicati a Parini e Alfieri, e lui di quello avrebbe dovuto occuparsi per la tesi. Ma in quegli anni scoppiò una polemica all’interno del Pci sul romanzo Metello di Vasco Pratolini. Un libro che rientrava nella categoria del realismo moderno, e che per questo fu sostenuto fortemente da tutti i critici di fedeltà comunista. Muscetta che era comunista anche lui scrisse invece due articoli per affondare il romanzo e i suoi ammiratori.

Asor Rosa ne fu come folgorato: è così che cominciò la sua carriera di uomo contro. E a Sapegno anziché proporre la tesi su Alfieri, Foscolo o Parini, chiese di farla su Pratolini. Ma anziché schierarsi con l’ortodossia comunista, preferì dar ragione all’eretico Muscetta, amplificando e allargando pure le sue critiche. Sapegno apprezzò molto il suo lavoro, tant’è che un paio di anni dopo lo pubblicò a cura dell’istituto. Muscetta a sua volta ne fu lusingato, e gli propose un importante lavoro per l’Einaudi. Che poi fece ferro e fuoco per non far pubblicare, perché ovviamente tra i due era finita come capitava spesso con Asor Rosa, che non si parlavano neanche più.

 

Machiavelli e l'Italia, Alberto Asor Rosa. Giulio Einaudi editore
Machiavelli e l’Italia, Alberto Asor Rosa. Giulio Einaudi editore

La sua vita di acceso e arguto polemista al centro di qualsiasi battaglia era ormai ben avviata. Nel ‘56 firmò il manifesto dei 101 e ruppe col Pci dopo l’invasione in Ungheria. Nei primi Anni 60 usciva finalmente il suo libro, Scrittori e Popolo, presso le piccole edizioni di Samonà e Savelli, visto che all’Einaudi Muscetta s’era piazzato col fucile se solo osava avvicinarsi. Carlo Salinari sull’Unità lo accolse con una recensione dal titolo significativo: “Un piccolo borghese sul piedistallo”, dove il piccolo borghese era proprio lui. Se Asor Rosa ci restò male, ci rimase peggio Pier Paolo Pasolini, che dopo averlo letto definì il critico palindromo “l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”. Pasolini era messo sotto tiro e stroncato assieme a tutto il modello della narrativa di sinistra. Che aveva scelto come soggetto dei propri romanzi un “popolo artefatto e sfigurato”.

Lo scrittore chissà cosa avrebbe detto se avesse letto quel che diceva dopo la sua morte, perché Asor Rosa ci andò giù ancora più duro. Sostenendo che l’autore degli scritti corsari “era un’icona pop reazionaria e populista”, invitando la sinistra a “non farne un santino: è un destino che non merita”. In compenso, l’uscita di Petrolio nell’89 gli fece cambiare idea. Il libro lo coinvolse e lo appassionò, illuminando in qualche modo di un colore nuovo l’opera di Pier Paolo Pasolini. La verità è che il pensiero insegue il mondo anche quando ripropone se stesso. Non potrà mai restare fermo. E se decidi di rispettare il pensiero, anche tu non starai mai fermo. Asor Rosa era così.

Fra una polemica e l’altra, un attacco a Moravia e ai salotti romani, una critica severa al garbuglio della nuova sinistra di padre comunista e madre democristiana, cresceva anche la sua carriera universitaria. Professore incaricato di storia della letteratura italiana, veniva riconfermato ogni anno da Natalino Sapegno, fino a quando non diventò ordinario nel 1972. Nel suo percorso professionale ha diretto la monumentale Storia della Letteratura italiana Einaudi, ha firmato monografie (Niccolò Macchiavelli, Thomas Mann, Joseph Conrad), ha tenuto corsi universitari affollati di adepti, ha fondato, guidato o collaborato a tutte le riviste più importanti dell’intellighenzia di sinistra.

Entrando e uscendo dal Pci in un tragitto abbastanza confuso, passando dai socialisti al Psiup, con toccata e fuga in Parlamento nelle file di Berlinguer. Sempre inseguendo il suo pensiero e mai un posto fisso nella galassia ideologica, dalla vicinanza alla rottura più completa con Toni Negri (che andava a trovare a Trastevere nelle sue libere uscite dal carcere). Prima collaboratore entusiasta di Occhetto per la svolta nel partito, e poi il suo più accanito avversario. Adesso che è mancato, anche quelli che si erano confrontati a duello con lui ne riconoscono i meriti. Succede sempre così, è normale. La morte spegne la voce, ma resta il pensiero. E magari restano anche le sue ragioni.

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