“Il sole allo Zenit”: una nuova collezione di vicende e coincidenze strambe dell’arte, in un percorso in cui è preciso aguzzare la vista e il pensiero per intendere, cercando le ombre che mancano. E infatti si inizia con un illustre fraintendimento
Quando si inizia una nuova riflessione lunga non si sa mai cosa scrivere esattamente. È un vero e proprio Calvario, si scivola (come Carrà nel lago) in continuazione e non c’è nessun Cireneo pronto ad aiutarti nel sorreggere la croce. Verrebbe da far scegliere a qualcun altro, che questa cosa della scelta davvero attanaglia. Quando Duchamp scelse lo scolabottiglie come ready-made decise semplicemente di porre titolo a un oggetto che esisteva e per il quale il suo concetto di estetica non contava. Dopo quarant’anni le persone cominciarono ad assimilarlo e vedendo lo scolabottiglie gli veniva spesso detto: “it’s so beautiful!”. Non c’era complimento che Marcel gradisse meno: la bellezza non era contemplata e lui non voleva sedurre con la forma.
Era un modo di nascondere la piacevolezza estetica, un po’ come faceva il Rubens per certe dame fiamminghe, ornandole con dei colli lunghi a lattuga spessi, che evitavano inutili civetterie e inappropriati modi di piacere. Ma veniamo al dunque. Una storia mi ha suggerito l’idea per la nuova rubrica di Artslife, che potrebbe chiamarsi “Il Sole allo Zenit”. Tratta di vicende alterne e coincidenze artistiche strambe, proprio come quando il sole è allo Zenit, una sola volta al giorno, nell’immensità del nostro mondo. Quando cioè le ombre non paiono esserci e tutto risulta più chiaro anche ai nostri limitatissimi occhi. Un filo rosso lega i testi, ma c’è spazio per saltar di palo in frasca, fino al Nadir e oltre. Sono per lo più fatalità che permettono di dare il là a qualche vicenda, come per quella poesia di Mallarmé che ripristinava nel lettore la forma e l’esperienza del caso: “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard”. Il mese era maggio, 1897 l’anno.
La prima casualità me la raccontò proprio Jonathan Monk, che comprò un libro sul design della Porsche scritto da un tale Richard Hamilton. Lui pensò che l’autore fosse il padre della pop art, “quel” Richard Hamilton, ma in realtà non era la stessa persona, solo un caso di omonimia. Anni dopo, a un’asta di automobili di Bonhams, il 26 giugno 2015, fu battuta proprio la Porsche 911S 2.4 Litre Coupé del 1973 di Richard Hamilton – stavolta l’artista- e Monk decise di creare lui stesso una serie di opere per mostrare quella macchina rimasta assolutamente integra, con quel design perfetto che “non poteva essere migliorato” da alcuna modifica.
Richard la tenne per oltre quarant’anni, muovendosi attorno al suo studio di Highgate prima, e nella zona di North End Farm, a Henley-on-Thames poi, utilizzandola anche per raggiungere le gallerie in Europa con le quali collaborava, viaggiando con il suo amato cane Collie sul sedile a fianco. In quegli anni anche le gare di Formula1 venivano vinte da un certo Hamilton, che per fortuna si chiama Lewis e non Richard.
E che c’entra tutto questo con la scelta Duchampiana? A Richard Hamilton, l’artista, dobbiamo la prefazione scritta per quel bellissimo libro dal titolo Not Seen and/or less seen by/of Marcel Duchamp/Rrose Selavy, stampato a New York nel 1964, cui seguirà un’esposizione nel successivo inverno. Nell’introduzione Hamilton ringrazia Duchamp per tutto ciò che ha creato e per il suo “midas touch”, ricordando i vari lavori esposti, che sono “più di quelli che si conoscono, meno di quelli che sperassimo”. Perché Marcel “performava alle sue stesse regole, o niente affatto” e lo si dovrebbe ammirare per quell’indifferenza agli oggetti che lavorò con incredibile cura, per quel trattenersi dal mettersi un prezzo, per quella generosità nell’offrire il suo genio a ogni gesto di amicizia. Marcel dovette gradire parecchio il testo e infatti donò il libro in omaggio al caro amico Man Ray – e anche l’uomo raggio c’entra con una rubrica del sole a mezzogiorno – con tanta stima e un’ampollosa dedica: depuis et pour longtemps. Marcel Duchamp.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni